II geniale compromesso di Verona di Francesco Rosso

II geniale compromesso di Verona VINCE LA RAGIONE NELLA PICCOLA CAPITALE DEL VENETO II geniale compromesso di Verona Con il suo attivismo, poteva disgregarsi in metropoli e distruggere il passato - Ha posto limiti volontari alla crescita, difeso le cose belle, realizzato con accortezza ambizioni realistiche e misurate - Rimane città d'arte anche nelle botteghe artigiane Verona, agosto. Il rapido pomeridiano per Venezia parte da Torino pressoché deserto, si congestiona alla stazione di Milano, si svuota quasi completamente alla stazione di Verona. E' il treno dei pendolari veronesi del capitale, dei grands commis dell'economia che dormono la notte a Verona ma ripartono la mattina dopo per Milano, la città di tutti gli affari. Questo va e vieni di uomini con borsa executive in samsonite possono essere presi a simbolo della nuova Verona, sempre più staccata da «dolce, caro Veneto» e proiettata verso la più monotona, attivissima Lombardia. Dì tale sganciamento si ha la riprova in tante manifestazioni veronesi, dalle iniziative industriali alle visioni in cinemascope dell'avvenire cittadino, ma a guardare un po' più sotto la pelle, ci si avvede che, nonostante i il frenetico dinamismo nelle iniziative. Verona non ha perduto la testa inseguendo chimere da megalopoli ed è rimasta quello che ha stabii lìlo di essere, una città di li¬ mitate proporzioni in un'atmosfera di piccola capitale. Sbilanciarsi troppo verso Milano, scimmiottarne le ambizioni di metropoli, avrebbe potuto significare la rinuncia alla primogenitura nel Veneto, allinearsi su posizioni non diverse da quelle di Brescia, diventare una cittaiona, magari con un milione di abitanti ma con la fisionomia stravolta dal superaffollamento e dalla colata di calcestruzzo che avrebbe aggredito anche le dolci colline che le fanno da cornice. Pericolo evitato Invece, caso davvero unico in Italia, dei limiti. Fino a dieci anni or sono, il piano regolatore prevedeva insediamenti per almeno seicentomila abitanti; accortisi del pericolo, i veronesi hanno preso una decisione molto semplice; hanno camminato strada per strada attraverso tutta la loro città, hanno guardato palazzi e monumenti ed hanno deciso: deve restare com'è, una città per non più di 300 mila abitanti, all'incirca Verona si è posta quanti ne ha oggi, niente di più. E' stata una decisione saggia, una delle poche volte in cui i veronesi hanno sentito il bisogno di difendere il loro inestimabile patrimonio d'arte e di storia, cosa che non sempre è avvenuta in passato. A leggere alcune pagine di Montesquieu e di Ruskin si direbbe, anzi, che gli antichi veronesi avessero così scarso rispetto per quanto possedevano, che andavano a gara per deturpare chiese, palazzi e monumenti, anche quando intervenivano con intenzioni di restauro. C'è l'esempio viù nefasto di tali \ interventi, il restauro della statua di Cangrande; il restauratore decise, d'arbitrio, di irrigidire goffamente la svolazzante ala del mantello cambiandola integralmente e dì modellare a suo talento, cambiandolo naturalmente, l'elmo che ricade sulla schiena del condottiero. Di tali mutilazioni Verona ne ha subite molte nei secoli, e Licisco Magagnato, direttore del Museo di Castelvecchio, il più funzionale dei musei italiani, ne indica alcu- ne, già troppe per elencarle tutte in questo articolo che ha altri scopi; guardare Verona com'è oggi, conservata con rispetto geloso pur mantenendola viva e dandole quell'aspetto di piccola capitale del Veneto, senza mettersi in concorrenza con le altre città, e tuttavia fiera del suo ruolo. Per esempio, non contestava a Padova la funzione di grande studio universitario, ma lasciava capire che una buona dependence non le sarebbe dispiaciuta. Ottenne una sezione staccata di Economia e Commercio, una di Magistero, una di Medicina. Quest'ultima facoltà si rivelò vitalissima, con circa diecimila studenti iscritti. Le spese se le assunsero il Comune, la Cassa di Risparmio ed altri Enti cittadini. Tutto andò bene, specie quando fu eretto il Policlinico, in buona misura assegnato alla Clinica Universitaria; è uno dei centri ospedalieri più attrezzati e moderni d'Italia, tremiladuecento posti letto, quasi cinquemila dipendenti, ma le spese divennero pesanti, per sostenere l'Università il Comune e gli altri Enti sborsano più di un miliardo l'anno, ed ora non ce la fanno più. Chiedono l'intervento dello Stato, e chi sa mai se giungerà. Tuttavia, la presenza degli studenti ha portato una ventata giovanile in città, per le strade c'è movimento e gaiezza, non si nota la torva ostilità cittadina che investe altri centri universitari, come Padova e Bologna; forse perché Verona, nonostante la severità dello stile gotico che informa tutta la sua architettura, è ciUà che concilia i contrasti, smussa gli angoli, addolcisce fin le asprezze politiche. Mi piace camminare lungo le anguste viuzze che tagliano a zigzag il centro storico, dove gli antichi palazzi prendono rilievo proprio dalle diseguaglianze del tracciato viario, protendendosi con un po' di arroganza i più maestosi, retrocedendo i più modesti. Quasi ad ogni crocevia, la pietà religiosa dei veronesi ha drizzato tabernacoli con immagini circonfuse, di notte, dalla tremula luce di lumini che mani ignote accendono al calare di ogni sera. Santa Anastasia, la tomba Castelbarco, la più bella del mondo, «il principale fra tutti i marmi sepolcrali in una terra di lutto» come l'ha definita Ruskin, le Arche Scaligere, Piazza Dante e il Palazzo dei Signori; un Medioevo che ha conservato una sua vitalità, più che in altri centri di Toscana, e che si riflette, appunto, in quei tabernacoli dei quadrivi. Ma è rimasta davvero così bigotta l'attuale Verona? La città, no; forse il vasto contado appartiene ancora al tradizionale «Veneto bianco», ma Verona è diversa e non solo perché si è data una complessa amministrazione comunale con prevalenza della sinistra, ma per il disincantato scetticismo, venato di cinismo, che è tipico dei veronesi, sempre arroccati su posizioni difensive e con l'occhio al buon affare anche se il cuore comanda di alzare gli occhi a cercare protezione nella Madonnina del pilone. C'è tutta una letteratura sui veronesi, sulla loro indole; Montesquieu è stato feroce con loro, ed altrettanto ha fatto un secolo dopo Ruskin, che pure ha amato d'amor carnale Verona; un po' meglio si è comportato Goethe, che li ha descritti con simpatia. Oggi, trascorsi i secoli, anche i veronesi sono mutati, da artigiani si sono fatti industriali, da piccoli contadini si sono trasformati in imprenditori agricoli. Dispone del più moderno ed attrezzato dei Mercati Generali d'Europa, che smista migliaia di tonnellate di derrate in arrivo da quasi tutta Italia e dirette verso l'Europa Centrale; lo hanno subito definito la Scala dei Mercati. Spedisce in America più vino di tutte le altre regioni italiane, il Soave ha di gran lunga battuto il Chianti, ed è il vino più bevuto negli States; il «bianchino», la famosa «ombreta» veneta, la bevono come aperitivo in America come in tutto il Veneto. Tante industrie Dì industrie ve ne sono, alr cune anche di proporzioni ragguardevoli ma poi, simile ad uno sfarfallio di coriandoli, ci sono le microindustrie, che fanno un po' di tutto, dalle scarpe (abbiamo superato Vigevano) ai blue jeans (sette milioni di capi l'anno). Questa Verona fattiva, alacre, religiosa con misura, venata di sarcasmo, scaturisce dalla conversazione con numerosi personaggi; la signora Poli, pezzo grosso nel sindacato; il dottor Panozzo, assessore all'Industria; Licisco Magagnato, intellettuale direttore del Museo di Ca- l | l stelvecchio, ma ben inserito | nella vita politica e produttiva di Verona. Intanto emerge un fatto; fra tanto attivismo agricolo e industriale Verona ha conservato la sua vocazione di città d'arte. Una delle sue attività economiche, ad esempio, era la preparazione delle terre per i colori dei pittori. Paolo Veronese, per il quale Ruskin prese una cotta memorabile, paragonabile a quella presa per la statua funebre di Ilaria del Carretto, a Lucca, alla quale pretendeva che somigliassero tutte le donne di cui s'innamorava inutilmente, usava soltanto quel verde, che da lui prese nome, prodotto dalle colline veronesi. Ora, quel verde non esiste più, la pietra si è esaurita; si produce solo il giallo di Siena, che a Siena non c'è più. Per bibliofili Restiamo ancora nel campo dell'arte. A Verona ci sono le più famose fonderie d'Europa, se non del mondo, e gli scultori vengono qui dai quattro angoli della terra a fare le fusioni delle loro sculture. In via Marsala c'è tuttora la stamperia di Giovanni Mandersteig; venuto dalla Germania all'inizio del secolo per stampare l'opera omnia di D'Annunzio, vi è rimasto, anch'egli stregato da Verona, e continua a stampare libri per raffinatissimi bibliofili di mezzo mondo. Fu su questa traccia che Mondadori pensò di impiantare a Verona la sua colossale tipografia? Forse, oppure ha giocato la sottile seduzione che la città scaligera esercita anche sui grandi manager, per quell'aria riposante, svagata, gaudente che circola per le antiche strade, un'atmosfera che sa di bohème parigina fine secolo, coi suoi poeti e scrittori, come Berto Barbarani e Renato Simoni, ed i pittori, come Angelo dall'Oca Bianca, che eleggono l'osteria come luogo di incontro; ma niente absinthe nei loro bicchieri, solo il limpi¬ do vino dei colli veronesi, o delle rive del Garda, dove le viti crescono fra cedri e olivi. Qualcuno mi dice che i veronesi, come tutti i veneti, sono allegri solo in apparenza, che il loro fondo è sospettoso e misantropo. Forse è vero, ma più che ai loro atteggiamenti, penso si debba guardare ai risultati, a ciò che fanno. Sono dei pragmatici, questo è indubbio. Faccio un esempio: Verona è sempre stata un nodo stradale e ferroviario di importanza primaria, è il raccordo fatale per l'Austria e la Germania; lo è tuttora, ed i grandi condomini, simili a falansteri, sono stati costruiti per ospitare le migliaia di ferrovieri. E' stata anche uno dei baluardi difensivi dell'Austria, che la fortificò mica male, fino ad abbattere il palazzo di Teodorico per costruire un casermone in posizione dominante. Di quelle fortificazioni rimasero i Bastioni, divenuti schiavitù militari dopo l'unificazione. Il Comune si è ben guardato dal rivendicarli; riscattandoli sarebbero finiti in mano alla specuzione e trasformati in sterminati quartieri d'abitazione. La schiavitù militare li ha risparmiati, sono divenuti rallegranti oasi verdi folte di alberi. Così sono fatti i veronesi, intendono salvare la loro identità e conservare Verona entro una scala di valori che si adatti all'uomo. Chi desidera spazi più ampi vada altrove: «Non si può rubare terra per costruire case» ha detto il sindaco avvocato Renato Gozzi. Per questo i veronesi fanno i pendolari del capitale e dell'economia verso Milano, e dopo aver smaltito la sbornia di invidia ed il desiderio di trasformare in metropoli la loro città, esportano non soltanto i manufatti, ma anche le sottigliezze psicologiche, il linguaggio sciolto, pronto, come ha annotato Guido Piovene, che non è congeniale ai lombardi. Francesco Rosso