La scuola obbligatoria ha cent'anni

La scuola obbligatoria ha cent'anni QUANTO TEMPO C'È VOLUTO PER VINCERE L'ANALFABETISMO La scuola obbligatoria ha cent'anni Da cent'anni vale per gli italiani l'obbligo scolastico. La legge che l'introduce, data per l'esattezza lb luglio 1877, ha rappresentato senza dubbio una svolta nella storia del sistema scolastico italiano, che era fondato sul decreto-legge Casati del 13 no vembre 1859. Mai discusso In Parlamento, era stato successivamente esteso a tutto il territorio dello Stato. Tale decreto-legge aveva affermato il diritto all'istruzione primaria per tutti i cittadini, ma, dovendo infine concretizzare quanto in altri paesi (come in Prussia ed Austria) era in vigore fin dagli ultimi decenni del '700, era stato singolarmente incerto ed ambiguo. Non solo l'obbligo affermato per tutti era soltanto morale (cioè non si prevedevano sanzioni per i genitori che evadevano), ma l'istruzione elementare veniva affidata alle finanze dei Comuni, di cui finiva per rappresentare il capitolo di spesa più gravoso. Inoltre la funzione del maestro, resa precaria e poco appetibile economicamente, era assai lontana da quella dignità e carica ideologica che da quasi un secolo aveva in Prussia, dove l'insegnante elementare era il primo e più importante funzionario dello Stato che tutti i bambini dei villaggi incontravano. La legge toglieva con una mano quanto concedeva con l'altra: l'affermazione per cui tutti i Comuni dovevano istituire almeno un primo biennio elementare, era corretta dall'altra «compatibilmente con le condizioni finanziarie». Né la classe dirigente aveva avuto intenzione di intervenire a sanare gli inevitabili vuoti. Ruggero Bonghi, fra i più attenti uomini della Destra ai problemi scolastici intesi come organizzazione della cultura nazionale, si era reso conto che il giovane paese, con presenze di analfabeti a dir poco drammatiche, spendeva meno di un decimo della Francia (che aveva meno abitanti e meno analfabeti). Nonostante gli avvertimenti del Bonghi la classe dirigente della Destra aveva continuato ad occuparsi dell'università e della scuola secondaria, trascurando sia l'istruzione tecnico-professionale, sia quella elementare. La legge Coppino In realtà la svolta della politica scolastica, in cui si inseriva, come il più importante risultato, la legge del 15 luglio 1877, firmata dal ministro Michele Coppino, era il segno di un cambiamento più profondo, politico e sociale. In termini gramsciani si può dire che, con tutte le contraddizioni, un nuovo blocco storico si era formato. La presenza al governo di uomini della Sinistra, più attenti alle esigenze popolari e della piccola borghesia, la coincidenza delle richieste di questi gruppi con quelle che provenivano dagli ambienti «industrialisti» e la volontà di Agostino Depretis di comporre una nuova e più complessa strategia, fecero si che per qualche armo (e in particolare nel settore scolastico) non si risentissero del tutto i pesanti condizionamenti politici posti da quanti appoggiavano da posizioni retrive la nuova formula di governo. Con la legge del 15 luglio 1877 non solo l'istruzione primaria era dichiarata obbligatoria, con sanzioni alle famiglie che la eludessero, ma si poneva per la prima volta concretamente il problema dell'intervento dello Stato, dove le finanze locali erano insufficienti a provvedere. Naturalmente la scelta non era priva di conseguenze anche sul piano ideologico: non solo si affermava l'obbligo, ma anche un tipo di formazione primaria laica che rompeva per la prima volta con una cultura elementare tutta informata ai principi religiosi. Questa legge non era del resto un intervento isolato, ma si collocava in un contesto più ampio di scelte sulla scuola, dalla rivalutazione degli stipendi dei maestri, alla realizzazione delle casse pensioni, all'aumento di un decimo per gli altri ordini insegnanti, alla riorganizzazione dell'istruzione popolare, tecnica e professionale. Con la legge Coppino sull'obbligo, l'Italia si confrontava — sia pur a distanza — con i Paesi europei che avevano sottolineato non solo l'importanza dell'istruzione popolare, ma dello stesso maestro, come portatore dei valori dello Stato nelle piccole comunità. Era una scelta certamente più vicina a quella francese (il maestro laico, portavoce della Repubblica radicale e contrapposto, come organizzatore della cultura locale, all'egemonia tradizionale del parroco) che non a quella prussiana (il maestro che aveva fatto la potenza del Reich). Vale la pena di ricordare che l'autore della legge, il Coppino, di Alba, era un tipico rappresentante della piccola borghesia intellettuale. Figlio di un sarte, aveva studiato nel Collegio delle Province di Torino, l'antica istituzione di Vittorio Amedeo II, che dal 1729 reclutava ogni anno cen¬ to giovani meritevoli e poveri, aprendo loro la possibilità di entrare nella classe dirigente. Insegnante di liceo, letterato e giornalista, fin dall'inizio della sua attività aveva creduto che la scuola potesse essere uno strumento di emancipazione popolare. Lo Stato aveva il compito di organizzarla in tal senso. E' difficile non cogliere in questa scelta precoce anche il riflesso della propria esperienza personale, in cui il successo era stato possibile grazie ad una delle più antiche, laiche e dignitose forme di assistenza scolastica statale. Tristi statistiche La sua carica umana e politica si trasmise anche ai funzionari che ne accompagnarono le scelte. Basti ricordare i dati offerti dall'inchiesta Bonazia sull'obbligo (1878), un vero spaccato eloquente e drammatico delle condizioni culturali e sociali italiane: una discreta organizzazione scolastica in Piemonte e Lombardia (con i problemi semmai del lavoro minorile, ormai tipici di un mondo avviato all'industrializzazione), un ritardo pieno di potenzialità nel Centro Italia, in particolare in Emilia e Toscana, l'assenza totale di una tradizione scolastica pubblica nel Mezzogiorno e nelle Isole. Solo lo Stato — concludeva l'ostinato ottimismo illuministico del relatore che si rivolgeva al Coppino — avrebbe potuto modificare tali drammatici squilibri. La legge del 15 luglio (come gli altri interventi della Sinistra) apriva quella stagione di riforme che culminerà nel 1911 con la legge Daneo-Credaro e con l'avocazione allo Sta¬ to dell'istruzione elementare. Non cne mancassero limiti in tale politica: l'obbligo (tre anni) era troppo breve per rompere decisamente la tradizionale cultura analfabeta predominante nella società italiana. I maestri rimanevano in balia delle amministrazioni locali. Gli interventi finanziari dello Stato erano incerti e favorivano (nonostante le migliori intenzioni) le realtà economiche più forti. Permisero infatti al Nord e al Centro di completare realmente l'obbligo per tutti, ma non intaccarono che in parte l'analfabetismo meridionale. I dati sull'alfabetizzazione offerti dai Censimenti nazionali dal 1861 al 1971 (che solo negli ultimi decenni si sono avvicinati, per il settore primario, ai valori pieni) mostrano quanto sìa stata difficile e complessa la vicenda dell'obbligo scolastico in Italia. E alla differenza fra Nord e Sud si aggiungeva — più mascherata dalle cifre, ma non meno drammatica — quella fra uomini e donne, separati a lungo anche da una diversa capacità nel leggere e nello scrivere. Tale differenza si aggravava significativamente nelle zone dove la cultura alfabeta era più debole (Mezzogiorno ed Isole). Pur con i limiti già detti, la scelta del ministro Coppino «priva un discorso che non 1 può considerarsi chiuso e risolto neppure dalla fondamentale legge sull'obbligo fino ai 14 anni del dicembre 1962. E' infatti in gioco ancor oggi non soltanto il prolungamento di questo, ma soprattutto la qualità della scuola di base e dei processi di formazione superiore in una società di massa. Giuseppe Ricuperati