Chi ha paura di Adolf Hitler? di Tito Sansa

Chi ha paura di Adolf Hitler? POLEMICHE IN GERMANIA PER UN FILM SUL FUEHRER Chi ha paura di Adolf Hitler? (Dal nostro corrispondente) Bonn, agosto. A trentadue anni dal suo suicidio, Adolf Hitler è tornato di gran moda in Germania, come «superstar». Da un mese un lungo documentario di due ore e mezzo, Adolf Hitler - una carriera, corre sugli schermi di una quarantina di cinematografi tedeschi, affollati come di rado, mentre fuori la folla fa la coda per entrare. Nostalgia, rimpianto, o forse soltanto curiosità? Che cosa richiama in così gran numero i tedeschi del 1977 a vedere l'uomo che per dodici anni ha affascinato tutto il loro popolo, trascinandolo nella guerra e nella rovina? Una risposta è difficile, almeno a giudicare dal comportamento del pubblico in sala, che in un silenzio quasi religioso — senza sussurri, senza commenti, senza fischi o applausi — segue le fasi della «carriera» dell'imbianchino austriaco dall'infanzia fino alla morte nel «bunker» della Cancelleria. Silenzio e nostalgia Soltanto una volta si ride, quando il Puehrer infila un comico berretto da aviatore. Soltanto una volta si sorride, quando imita le mossettine di Galeazzo Ciano. Incidenti finora non ve ne sono stati, salvo un coro nazionalistico intonato da tre nostalgici e il lancio di bombette puzzolenti in due cinema di provincia. Al silenzio del pubblico — forse affascinato, forse turbato — si accompagna un'accesa polemica di stampa. Mentre la critica ufficiale ha premiato il documentario giudicato «particolarmente pregevole», la critica giornalistica lo ha preso nelle sue tenaglie, sezionandolo spietatamente, non dal punto di vista qualitativo ma dal punto di vista politico. Per i critici dei giornali e dei settimanali considerati progressisti, liberali e di sinistra, Adolf Hitler ■ una carriera è «pericoloso» perché esalta il dittatore, lo presenta co¬ me un personaggio fascinoso e affascinante, mette in rilievo le sue straordinarie qualità di showman e di imbonitore, la sua oratoria trascinatrice, la sua teatralità, senza criticare sufficientemente i suoi misfatti e crimini. Troppo poco spazio è — protestano — stato dedicato dall'autore Joachim Fest (che ha venduto oltre mezzo milione di copie delia sua biografia di Hitler, tradotta in quindici lingue) agli omicidi, ai campi di concentramento, ai massacri commessi in nome del popolo tedesco. Talune frasi del commento, nelle quali è detto che Hitler «risolse il problema della disoccupazione» o «riportò la fiducia» o «costruì le autostrade», vengono giudicate dalla critica come esaltatrici del dittatore. Il silenzio di Fest sulle complicità dei grandi capitalisti, delle chiese, dei militari, è considerato voluto, per non turbare l'attuale incerta pace sociale della Germania Federale. Joachim Fest non ha difficoltà a difendersi. Dice che non ha voluto fare la storia del Reich nazista, ma esaminare la carriera «tipicamente tedesca» del dittatore. Ciò che gli importava (e vi è riuscito) era mostrare il misterioso fluido che da Hitler passava alle masse, e viceversa, lo studio attento del volto e della voce, di ogni mossa del dittatore e la rispondenza che esso trovava nella folla. Un Hitler come quello presentato da Fest non lo si era mai visto: la preparazione dei discorsi, la scelta dello parole, le pause teatrali da attore nato, lo studio dei gesti, e — parallelamente, in contrappunto — la rispondenza che ciascuna di queste azioni trovava tra la folla. Il materiale che Fest ci presenta è perlopiù inedito, tratto in gran parte da documentari di propaganda nazista o provenienti da archivi privati. Come erano bravi i documentaristi di allora, quali formidabili inquadrature di masse, di gesti, quali drammatici primi piani riuscivano a girare con le loro macchine a manovella, dice un collega italiano che non sa una parola di tedesco ed è rimasto affascinato. E come erano bravi a cogliere Hitler in privato, quando lontano dalle folle si rilassava e tornava a essere il piccolo borghese proveniente dalla provincia austriaca: un sonnellino, un gioco col cane, un'aggiustatina alla cintura dei pantaloni, una raddrizzatala ai baffi. «Pericoloso», dicono molti critici, questo Hitler umano in privato e affascinante in pubblico: «Potrebbe attirare ancora simpatie e risvegliare nostalgie». Pericoloso soprattutto per i giovani. Scrive il commentatore dello Spiegel che «queste immagini emanano una tale forza di suggestione che bisogna essere preoccupati sugli effetti che possono avere sugli spettatori impreparati». E la «Lega dei liberi autori tedeschi» (dimenticando che la libertà di espressione è alla base del suo statuto, oltre che nel nome) va più in là delle Izvestija sovietiche, che criticano le «molte menzogne» del documentario, e chiede ufficialmente che il film su Hitler venga vietato e tolto dalla circolazione: potrebbe fare proseliti tra la gioventù di oggi, sbandata e senza ideali, alla ricerca di un ordine nel quale credere. Visto dai giovani Sorge a questo punto la domanda se trentadue anni dalla fine della dittatura nazista siano sufficienti per presentare il personaggio Adolf Hitler cosi come era da vicino e se il pubblico tedesco è maturo per una valutazione obiettiva della figura quasi carismatica del Fuehrer. La risposta dei giornalisti politici, a giudicare dalla loro reazione, è «no»; la risposta del privato cittadino, che guarda in silenzio senza reagire, è invece affermativa: si può. La reazione dei giovani, considerati «in pericolo» dai professionisti della politica giornalistica, è stata positiva e incoraggiante. Un nuovo Hitler verrebbe «bene accolto» nella Germania di oggi, dice un ragazzo diciottenne, che ha appena visto il documentario, e aggiunge che «non aizzerebbe contro gli ebrei ma contro i lavoratori stranieri». Una biondina è della stessa opinione, dice che «la gente non ha imparato nulla, si lascia infettare, le masse correrebbero di nuovo». Anche l'autore Joachim Fest ritiene che il Fuehrer eserciterebbe ancora oggi una certa influenza, «naturalmente con uno stile diverso. La potenziale condizione psicologica delle masse lo renderebbe sempre possibile, certo egli si presenterebbe in una maniera differente». Secondo Fest, Hitler non va visto (come è stato finora, da molti che lo hanno demonizzato per lavare le proprie coscienze) come «un mostro morale venuto dal nulla, se fosse così potremmo stare tranquilli», ma piuttosto come «un rappresentante della Germania del suo tempo». Ed è necessario oggi domandarsi «come e perché» abbia potuto trovare tanta risonanza e «accertarsi se le condizioni che gli permisero di diventare grande sono veramente state accantonate, se in un mondo in crisi e in trasformazione non si chiedano sempre uomini forti con le loro soluzioni semplicistiche, se non esista una nostalgia per l'ordine che trionfa sul caos». Curiosamente, Joachim Fest, che invita i connazionali a questo esame di coscienza collettivo e ritiene che il suo documentario possa «immunizzare» da una nuova infezione dittatoriale, è conservatore. E i moralisti, quelli che gridano contro il film e rifiutano l'esame delle responsabilità delle masse tedesche, sono proprio i progressisti. Mentre la destra accetta la identificazione tra il Fuehrer e il suo popolo, la sinistra la respinge, e rifiuta non soltanto la risposta, ma perfino l'esame della domanda che i giovani di oggi si pongono: «Come è potuto accadere?». Quella risposta che il conservatore Joachim Fest ha dato (sia pure con diverse lacune) evidentemente non piace. Se ne deduce che forse i tempi non sono ancora maturi per i tedeschi, «forse se ne potrà parlare tra cent'anni», dice uno dei critici della Zeit, Karl-Heinz Janssen, che ha stroncato il film. Di Hitler, insomma, non si dovrebbe parlare. Il «mostro» deve rimanere tabù: come si fa tuttora nelle scuole della Germania Federale, nelle quali la storia termina nel 1918. Tito Sansa

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