I contratti proteggono chi ne ha meno bisogno

I contratti proteggono chi ne ha meno bisogno Anomalie nel mondo del lavoro I contratti proteggono chi ne ha meno bisogno di Gino Giugni «Giungla retributiva» è denuncia di ineguaglianze e di privilegi. Ma è anche qualcosa di più. E' la prova che un sistema di garanzie posto in atto dal nostro ordinamento giuridico a difesa delle classi economicamente deboli sta franando nelle sue contraddizioni interne. E' ancora viva l'eco di documentate analisi sulla frattura del mercato del lavoro nelle due aree «istituzionale» e «irregolare». Esse hanno dimostrato in modo irrefutabile che il sistema di garanzie di cui gode il lavoratore italiano — un sistema tra i più avanzati del mondo — è in realtà un'area riservata, che lascia ai suoi margini due e forse quattro milioni di unità lavorative. E tra i due mercati si colloca, in zona intermedia, quello dei vari milioni di addetti a imprese minori, esclusi dall'ambito di applicazione di alcune tra le più importanti norme dello statuto dei lavoratori. Non è infondata la stima che forse più di un terzo dei lavoratori italiani non godano di piena tutela legale, abbiano cioè meno diritti degli altri. Oggi, con la pubblicazione degli atti della commissione parlamentare — una documentazione critica ed impietosa, che fa onore ai suoi estensori — sappiamo qualcosa di più. Sap¬ piamo cioè che la stessa area delle garanzie è inquinata da diseguaglianze irrazionali, abitata da abusivi, dai «portoghesi» del diritto del lavoro. E' quanto si dice, a chiare lettere, nella relazione: «Questa tecnica di protezione unilaterale del lavoratore (e cioè: le leggi e i contratti), originata da assetti normativi destinati ad operare in diverse situazioni storiche di forza individuale e collettiva, ha, con la sua generalizzazione anche in forza di applicazioni giurisprudenziali estensive, favorito anche la protezione di categorie e di gruppi professionali già autonomamente forti e protetti». E' accaduto cioè che istituti introdotti al fine di assistere o rafforzare il soggetto economicamente debole ed in condizione di subalternità sociale sono diventati pingui privilegi a vantaggio di gruppi che operano ai bordi dell'autorità costituita — e a volte sono autorità essi stessi, e che hanno avuto la sopraffina abilità di coniugare tale loro condizione con l'appartenenza all'area della protezione sociale. E così: il premio di buonuscita o l'indennità di licenziamento inventati per lenire il trauma della perdita del posto, sono all'origine delle superliquidazioni; le pensioni di vecchiaia, istituite per dar sicurezza a chi ne ha bisogno, generano la figura del pensionato d'oro; la stabilità del posto, sacrosanta aspirazione (e solo in parte soddisfatta) per chi è esposto alle incertezze del ciclo economico, diviene soprattutto privilegio di caste burocratiche; e queste cercano anche di appropriarsi dei limiti posti ai declassamenti professionali, per stravolgerli in strumenti di inamovibilità; una elementare garanzia quale il preavviso di licenziamento, nelle categorie direttive si allunga a dismisura c viene pagato come indennità, aggiungendosi alla già pingue liquidazione; o ancora: gli stretti limiti posti ai contratti a termine, fonte di innumerevoli abusi, sono trasformati in un ingegnoso sistema per entrare negli enti pubblici a colpi di sentenze (e la Rai-Tv deve saperne qualcosa). Né le cose stanno meglio sul piano più strettamente sindacale; così, sempre a rao' d'esempio, la contrattazione aziendale, sofferta conquista dei sindacalismo operaio, che ha invece celebrato i suoi massimi fastigi nel settore pubblico dove però è stata assai meno «sofferta» perché ha trovato un posto pronto nella grande tavola del clientelismo. Un altro esempio, e poi basta? I permessi retribuiti per attività sindacali, trasformati, e anche qui soprattutto negli enti pubblici, in distacchi permanenti ad attivisti che per di più non sempre utilizzano a prò del loro sindacato il tempo reso disponibile. Quale la ragione di questo stato di cose, viene naturalmente da chiedersi? Lasciamo a parte, in questa sede, le responsabilità politiche, amministrative e sindacali, che sono poi, in fondo, abbastanza scottanti. Il fatto è che gran parte di questi fenomeni degenerativi si sono prodotti da soli, in una sequenza diabolica che ha progressivamente esaltato le contraddizioni interne proprie del sistema di garanzie eretto a tutela del lavoro. E queste contraddizioni mi pare che in realtà possano ricondursi soprattutto a una, che le ricomprende. Rileggevo in questi giorni un'opera che è giustamente ritenuta il fondamento del diritto del lavoro italiano, e cioè il «Contratto di lavoro» che usci in prima edizione del 1902, e ne fu autore Ludovico Barassi, all'epoca un cattolico liberale, con un occhio benevolo per le leghe operaie, molto sensibile ai valori di libertà, che vedeva insidiati dal predominio economico dell'industria (in edizioni successive, leggeremo un'incondizionata adesione al regime, ma fu vicenda di molti). Barassi ripescò nell'inesauribile riserva del diritto romano un antico tipo di contratto (che, ad avviso di molti, era invero tutta altra cosa), e che chiamavasi locazione di opere; e lo trasformò nel moderno contratto di lavoro. Ma il nostro autore diffidava delle definizioni a sfondo politico o classista (qua e là circolava l'idea che le leggi del lavoro dovessero prendere in considerazione il contratto di lavoro, ma solo quello delle classi (Continua a pagina 2 in terza colonna)

Persone citate: Barassi, Gino Giugni, Ludovico Barassi