Italo-americani, un mondo chiuso di Furio Colombo

Italo-americani, un mondo chiuso UNA GRANDE "MINORANZA,, BIANCA NEGLI STATI UNITI Italo-americani, un mondo chiuso Indagini sociologiche confermano le impressioni quotidiane: dalla comunità italiana è difficile uscire per una brillante carriera e una piena assimilazione -1 legami familiari, il rapporto tra figli e risorse, le tradizioni portano a un certo immobilismo (Dal nostro inviato speciale) New York, agosto. Pino fa una buona pizza. Pino viene da Isola Capo Rizzuto. Pino parla un italiano televisivo, quasi corretto. Ma cominciano a mancargli le parole italiane. «You know»... si aiuta in inglese. Ma parlare in inglese lo imbarazza. Cerca una parola difficile, una dimostrazione di buona conoscenza della sua lingua. Dice «puculiare», ma non sa che sta traducendo «peculiar». Non credo che usasse quella parola a Isola Capo Rizzuto. Pino va e viene fra i pochi tavoli del suo locale. E' qui solo da cinque anni. Ha per moglie una teenager americana, come nei film Anni Cinquanta. Madre e padre sono venuti da poco: due pietre della Calabria. Non parlano, non rìdono, non aprono bocca. Lavorano. Ogni anno, ogni giorno, ogni lutto, ogni malattia, ogni speranza delusa gli ha lasciato in faccia una cicatrice. Ma sono facce robuste... Possono avere quarant'anni o cento. La bambina ha lunghe gambette irlandesi, e il viso come un'oliva. Guarda da lontano come se avesse co¬ scienza dì una cosa chiamata «secoli». Salta come una majorette, conquista piatti e oggetti impossibili, serve con precisione, corre lontano. Se non lavora è immobile, voltata un po' verso il muro. Pino all'improvviso canta a squarciagola con collo gonfio. Ha la voce potente, intonata. E' italiano. Ma non ha alcuna esperienza. Perciò comincia con un urlo, come un Tarzan da pizzeria. Sta servendo una pizza con candeline a due anziani signori colorati di giallo, di rosa e dì bianco (tra vestiti, carnagione e capelli) e la sua intenzione è di arieggiare il rituale « tanti auguri a te... ». I destinatari del complimento guardano spaventati e ammirati. Nella pizzeria Pino prolunga l'ultima nota svuotando polmoni da ex pescatore, fino al rantolo. Dieci o dodici battono le mani. Pino passa vicino e sussurra: «Ma che si deve fare...», senza un sorriso. Il sorriso è dedicato ai «clienti», che chiama ancora «stranieri» per rovesciare la maledizione di essere lui l'estra¬ neo. Quando sorride gli risplende tutta la faccia, gli fa gioco — nel mestiere, il colore scuro e un'ombra di quella barba latina che non si rade mai a perfezione. Ma con gli occhi rimane immerso dentro il suo acquario. Gli occhi gli navigano in una fantasia confusa fra passato e futuro, sempre fuori di qui e dal presente. Si confida e parla già con la velocità ansiosa, eccessiva, la voce buttata in fuori, che deve avere imparato dai «paesani» che gli prestano ì soldi (strozzandolo), che gli danno consigli (con qualche vaga minaccia), che gli dicono come deve essere il prossimo locale (per rifilargli un affare su cui hanno in mente di ricavare qualcosa). E' la voce comica, tragica, esagerata di Jimmy Durante. I vecchi clienti strizzano rughe di simpatia. Questa è la voce volonterosa di chi ce la mette tutta, si rompe la schiena, fa allegramente la spola fra l'inferno del forno e l'aria condizionata del localino. Ma alla fine sfonda, riesce. Quasi ci siamo. Pino mostra un anello. Sbaglia fra il lei, il tu e un vo' di inglese. «Di' quanto vale, dicalo!». E' triste e orgo- glioso. Descrive il locale che vuole avere, il «suo sogno». Non è il suo sogno, è il modello che i pescecani in navigazione qui intorno gli hanno «impostato». «Dunque c'è un baretto davanti, con le lampade rosse, che sono anche un po' sexy...». Pino non vede che la sua trattoria va benissimo, così povera e bianca, perché è ancora italiana. Resiste a ogni obiezione. Ha imparato a non ascoltare. Del resto l'affanno dentro il respiro e il ritmo comico-tragico della parlata glielo impediscono. La bambina ascolta ma toglie la testa ogni volta che tentano una carezza. Nella sua testa oliva sta pensando dove potrebbe andare quando il locale avrà tovagliette, tendine, luci rosse, e probabilmente, prima ancora che Pino lo sappia, un po' di droga e un po' di prostituzione. I due festeggiati colorati di giallo e di rosa escono salutando con la mano, come si saluta una nave. Per loro Pino fa ancora un acuto, cioè un altro urlo. La coppia congiunge le mani per la delizia. Adesso sono pronti per andare a vedere Fellini e «Settebellezze». «Uno studio fatto su trecento studenti italiani del Brooklyn College mostra che quasi tutti sono completamente alienati dall'ambiente del campus» leggo saZritalian American News, il primo giornale «italiano» pubblicato in inglese. Questo studio è stato condotto da un dr. Jerome Krase, di origine in parte italiana, benché ben coperto dal nome, per un centro finora non conosciuto che si chiama «Italian-American Studies». Prima di tutto viene fuori un dato interessante: la maggior parte degli studenti italiani, nelle università pubbliche di New York, possono continuare a studiare in base alla regola — passata alcuni anni fa — detta dello «open enrollment». Questa regola aveva abolito due requisiti: i voti «giusti» della scuola media. E le tasse. Ora, data la crisi della città di New York, lo «open enrollment» è stato abolito. Continueranno questi ragazzi a studiare? Ne verranno degli altri? «Guardiamo in faccia le cose — mi aveva detto una volta un leader negro —. Perché c'è ancora razzismo fra gli italiani? E' molto semplice: sono troppo ricchi per avere l'aiuto che diamo ai negri, come le borse di studio, il controllo sugli affitti e gli sconti sugli acquisti alimentari. Ma sono troppo poveri per andare avanti da soli. Per esempio per mandare i figli in scuole rispettabili». «Una larga porzione di studenti italiani nelle università pubbliche di New York viene da famiglie operaie o della classe inedio-bassa», continua il rapporto che ho appena citato. Ciò vuol dire che portano — sia pure con i benefici di una casa pulita, dell'acqua calda e di buoni pasti — un peso in più dei ragazzi negri o portoricani. Non corrono tutti i rischi ma neppure tutte le occasioni dell'avventura. Sono inchiodati a un minimo di sicurezza e a una pesante immobilità. Per qualche ragione, pili avanti di così non possono andare. Non lavorando. «Circa tre quarti degli studenti vorrebbero posizioni alte nella vita professionale. Solo il cinque per cento dei genitori di questi studenti si è avvicinato alle posizioni che ora essi desiderano». Si viene inoltre a sapere che più della metà di questi studenti — nonostante che la loro educazione universitaria sia stata fino ad ora gratuita, — lavorano per mezza giornata o la notte, e almeno il quaranta per cento viene da famiglie con più di cinque persone. Ecco un'altra robusta palla al piede. Per ragioni diverse (soprattutto un attaccamento alla prescrizione della chiesa cattolica) dividono con i portoricani e con le famiglie negre il problema della sproporzione tra figli e risorse. Nella trappola della piccola classe media, nessuno corre il perìcolo di finire sul marciapiede. Ma nessuno diventa Leroi Jones o Andrew Young. Tutti o quasi restano bloccati, come nelle fantasie di Bunuel, nella casetta di periferia comprata a rate, riverniciata con cura, dai bisnonni agli ultimi nati. La «crescita zero» che sta rendendo agiata l'altra parte dell'Amerìna, qui non funziona. Qui la media è sempre fra le cinque e le sei persone per famìglia. E' una benedizione, dicono parroci e patriarchi. Ma è una benedizione che tiene tutti nel ghetto, anche se questo è un ghetto con fiori e tendine. Ombre pesanti «Considerato questo background, non deve meravigliare se nell'insieme gli studenti italo-americani incontrano più difficoltà degli altri nell'affermarsi nella vita del college»: il rapporto nota che questi studenti se la cavano «ragionevolmente bene» (che vuol dire, nel linguaggio americano, che sono appena nella media). Ma aggiunge la descrizione di un tratto negativo che è ancora più allarmante del successo poco brillante: «Questi giovani mostrano di sentirsi sradicati e non a casa nella vita del college. Essi formano una minoranza bianca che ha enormi difficoltà a ritrovare nel college la sicurezza della vita di famiglia e della vita di quartiere». Una conseguenza è che gli studenti di orìgine italiana non sono attivi nei clubs, nei gruppi, nelle attività sociali e in quelle politiche. Dunque finiscono per non avere alcuna voce in quel che accade nella comunità scolastica e ne soffrono, appaiono soggetti passivi. Ma in qualche modo sentono che è loro impedito entrare in questo processo. Impedito da che cosa? «I genitori di questi ragazzi — leggo ancora nel rapporto — hanno una attitudine di scetticismo e persino di disprezzo per gli studi superiori, non incoraggiano lo sforzo e le difficoltà dei ragazzi, li vedono più volentieri in casa e legati a un lavoro». L'ombra della madre e della famiglia, con tutte le buone intenzioni, apre la trappola dell'affetto. L'assenza dalle attività sociali del college si paga, nella vita americana, con la mancanza di relazioni, di amicizie, di contatti e di esperienze utili. Pressati dal bisogno, ma anche dal puro e semplice orientamento pratico delle famiglie ad avere un lavoro, questi studenti evitano tutte le carriere che portano all'educazione umanistica, non perfezionano né la vecchia lingua né la nuova, non vanno né avanti né indietro. I più cercano di diventare dentisti o avvocati, per aprire uno studio magari nella stessa casa o nella porta accanto a quella della famiglia. Scrittori niente, scienziati niente, e ciò che più è triste, nessun leader nel senso naturale, tipicamente americano della parola. Nessun Martin Luther King. E nessun personaggio politico che non sia solo l'espressione di un gruppo locale che elegge un italiano solo perché in cerca di protezione, attraverso macchine politiche locali maneggiate da altri italiani. Nessun grande avvocato, nessun medico importante, nessuno scienziato di fama nazionale è italiano, nessun italiano siede in Senato (dopo il ritiro del vecchio Pastore) e ben pochi alla Camera. Quando un presidente cerca un italiano (Califano è il ministro per l'assistenza sociale di Carter) ci vuole il background un po' insolito di una madre irlandese. Mean Streets di Martin Scorsese ci ha insegnato, più del Padrino, come dalla casa con le tendine e dalla protezione-prigione delta famiglia e del gruppo, si passa alla «banda». Può darsi — anzi è quasi certo — che la grande ombra del gangsterismo, che è vera, veda le sue dimensioni tragiche e reali dilatate da un latente razzismo. Questo razzismo chiude ancora di più le fila della comunità. Se parlate in una università americana e dite la parola «mafia», riconoscete subito, dall'espressione di fastidio e disagio, gli studenti italiani fra coloro che vi stanno ascoltando. Per questo — come dice il rapporto del «Center for Italian American Studies» — questi giovani tendono a non identificarsi. Offrono sorrisi smaglianti e occhi distratti. E cantano magari, alla Fellini, alla Pasqualino Settebellezze, cantano con urlo, tanto per distrarre se stessi e gli altri, mostrare la faccia «buona» del clown. E tirare avanti. Furio Colombo

Luoghi citati: Calabria, New York, Stati Uniti