Il sottile piacere di "avvelenarsi,,

Il sottile piacere di "avvelenarsi,, Dal pesce "fugo,, alle droghe Il sottile piacere di "avvelenarsi,, In Giappone vogliono provare anche questa strana emozione Tutti hanno saputo, ormai, che il pesce responsabile dei recenti episodi tossici appartiene alla specie assai numerosa dei tetrodonti dei mari caldi e che la tossicità dei «fugus» dipende da una sostanza curarizzante, la tetrodotossina, contenuta in forti quantità nei visceri, segnatamente nei testicoli e nelle ovaie. Due grammi di quei tessuti sarebbero sufficienti ad uccidere un uomo adulto. La morte avviene per paralisi dei muscoli del respiro, come nel caso del curaro. Dunque, per asfissia. Si è appreso, altresì, che siffatti avvelenamenti non sono rari in Giappone per consumo di pesce non completamente eviscerato. Ma i buongustai possono gustare senza rischio il fugo, pesce squisito, in certi ristoranti autorizzati, preparato da cuochi diplomati dal ministero giapponese della Sanità. Vien servito, naturalmente crudo, in piccoli pezzi ben disposti a raggiera su bei vassoi debitamente intonati al colore roseo-ccruleo della pietanza, con l'aggiunta di una salsa delicata. Fatto singolare Sono pochi, tuttavia, a conoscere un fatto singolare: che, talvolta, in Giappone l'avvelenamento da fugo è intenzionale, almeno nelle sue fasi iniziali. E non per suicidio (il che anche accade) ma a scopo specificatamente voluttuario. Per procurarsi, cioè, giostrando sul filo della dose, i primi effetti della compromissione respiratoria; qualche attimo, in altre parole, di asfissia. Non si tratta del gusto del brivido, come, ad esempio, nella roulette russa. Ma della precisa ricerca di un piacere psichico, meritevole del rischio. Sappiamo di un solo caso analogo in Europa: quello di un giovanotto che si iniettò allo stesso scopo del curaro e fu salvato in extremis all'ospedale S. Anna di Parigi. Che la sensazione di soffocamento possa risultare piacevole ci lascia perplessi. Né ci sembra appropriato il paragone con le voghe del secondo Ottocento, e non rare ancora oggi di fiutare vapori di sostanze volatili. Non sembrano casi da paragonare al rischio di soffocamento come avviene per il fugo. In quei casi, a parte una ammissibile soddisfazione olfattiva, non si va oltre un blando obnubilamento mentale per la fugace impregnazione cerebrale, come, presso a poco, per una ubriacatura. Si può pensare al baluginici della coscienza che s'avverte nei primissimi stati di una anestesia generale chirurgica. Qualche boccata d'aria consente di riprendere perfettamente i sensi. Qui si tratta, invece, di una progressiva paralisi dei muscoli del respiro, da cui solo eccezionalmente si può tornare indietro. In chirurgia, l'uso dei curari per ottenere l'immobilità del torace è procedimento normale ma a condizione di un contemporaneo, sorvegliatissimo, rifornimento d'ossigeno. E sembra assai azzardato supporre che una mancanza d'aria sia accompagnata da un qualsiasi tipo di godimento psichico. Il pensiero corre, piuttosto, con terrore ai naufraghi, agli impiccati, alle persone investite da fumi asfissianti, ai soggetti minacciati da edema polmonare o del laringe e, via via, al caso estremo degli agonizzanti, dal respiro ormai raro, superficiale, rantolante, con perdita, più o meno completa della coscienza. Nessuno pensa a sensazioni gradevoli del moribondo. Vero è che Bacone sostiene che «pompa mortis magis terret quam mors ipsa», che, cioè, lo spettacolo della morte atterrisce più della stessa morte, e che Maeterlinch prevede che il terrore del trapasso «sarà pregiudizio che un giorno ci sembrerà barbaro». Noi persistiamo a creder leggenda poetica che i momenti del trapasso siano accompagnati da uno stato di beatitudine e che, anzi, si goda la rappresentazione vertiginosa della propria esistenza, come di un film girato alla rovescia. D'Annunzio Anche D'Annunzio riprese la credenza: «Sembra che le cose obliate e gli esseri più lontani e gli eventi più remoti o perfino i frantumi dei non interpretabili sogni abbiano grazia nell'agonia dell'uomo». E, cantando nelle Gesta d'Oltremare la morte di un combattente, vi ritorna: «Non apprese negli anni quel che apprende nell'attimo. S'irraggia mentre agghiada / E la morte lo fascia di sue bende». Ma l'istinto respinge la consolante seduzione. Arretra sbigottito. Nessuno, del resto, si ripete, è tornato a raccontarci le «sensazioni» (?) di quei momenti supremi. Eppure, oggigiorno, sembrano infittirsi le «testimonianze» dei reduci dal ciglio estremo. I moderni procedimenti di « rianimazione» consentono ricuperi solo ieri impensabili. Un libro del dottor Raymond A. Moody, «La vita oltre la vita», fa oggi furore in America con continue ristampe di centinaia di migliaia di copie. Riferisce le descrizioni di un centinaio di pazienti, richiamati in vita addirittura dopo essere stati dichiarati «clinicamen¬ «r te morti» da medici espertissimi e coscienziosi. I redivivi sarebbero concordi nell'cscludere sofferenze di sorta e nel descrivere «sensazioni» decisamente gradevoli di quegli istanti senza respiro con elettroencefalogramma lineare, prova indiscussa di morte. Descrizioni non diverse da quelle raccolte pochi anni or sono da un altro medico, il dottor J.B. Delacour, nel libro «Di ritorno dall'Aldilà ». Aveva, dunque, ragione quel serissimo dottor Pietro Paolo Fusco, quando nel 1911 raccolse in un libro di 400 pagine, «Le ultime sensazioni della vita», le «sensazioni» descritte da persone asfissiate, assiderate, avvelenate, precipitate dall'alto o in qualsiasi modo colpite da lesioni violente che tuttavia non erano riuscite ad ucciderle, nel tempo più o meno breve che aveva preceduto la perdita della coscienza? Un insigne patologo, professore d'Università, tutt'altro che credulone, e che aveva subito anche lui un'esperienza d'annegamento con perdita dei sensi e, naturalmente salvato, G.B. Ughetti, non solo confermò la versione del Fusco ma giudicò che quel libro «avrebbe meritato cento edizioni mentre tante altre vuote ed insulse pubblicazioni di pseudo-psicologia vanno a ruba come tesori di scienza». Anche quelle «testimonianze» convergono nella stessa conclusione: quei momenti non comportano nulla di atroce o di penoso; al contrario ammetterebbero «sensazioni» gradevoli. Si rilevi, anzitutto, che i diversi casi raccolti dal Fusco non sono affatto sovrapponibili né per patogenesi né per sintomatologia anche se hanno in comune un fugace stato sincopale. Parlare di «sensazioni» a coscienza spenta e peggio ad elettroencefalogramma « lineare » non può certo trovare d'accordo tossicologi, psichiatri, traumatologi, medici-legali, anestesisti e studiosi di medicina aeronautica, che hanno fatto oggetto di specialissima attenzione lo psichismo dell'uomo nei vari gradi di anossia cerebrale. Ma un fatto colpisce: tutti i «resoconti», in qualsiasi modo raccolti e del tutto indipendenti, sono concordi nel ripetere le stesse impressioni: un senso di smaterializzazione, di distacco dal proprio corpo, un senso di benessere, di estrema lucidità mnemonica e conoscitiva, la perdita dei limiti di spazio. Lasciamo da parte la credibilità di tali giudizi. Si vuole, qui, accennare soltanto alla loro sorprendente rassomiglianza, anzi identità, con gli effetti psichici di certe «droghe». Chiunque ricordi le meticolose descrizioni del De Quincey nelle «Memorie di un fumatore d'oppio» o quelle bellissime, e certo fedeli, del Baudelaire, ed altre ancora, non può non rilevare l'impressionante parallelismo con i casi sopraccennati, ancorché di diversissima radice patogenctica. Che negli attimi che precedano la perdita della coscienza ci siano momenti psichici comuni per cause diverse da un difetto d'ossigeno? Scuola austriaca Così come la stessa anossia provoca fisiologicamente una splenocontrazione compensatoria che immette bruscamente in circolo sangue ancora sufficientemente ossigenato, consentendo «sbuffi» vivificatori a livello cerebrale, non può avvenire che altri metaboliti «da insufficiente metabolismo biochimico» spieghino una loro parte «farmacologica» a certi livelli psichici? Alcuni anni or sono una seria scuola austriaca di fisiopatologia propose il problema con notevoli dimostrazioni sperimentali e cliniche, fino a prospettare applicazioni terapeutiche da «metaboliti da asfissia». Del resto, l'attività sui processi psichici di metaboliti epatici particolari (amine indoliche, ecc.) fu tema assai caro ad un insigne psichiatra italiano, V.M. Buscaino. E lo stesso Ugo Cerletti nel tentativo di dare un fondamento biochimico allo straordinario ricupero mentale dei soggetti annientati dall'elettroshok pensò all'intervento psico-attivatore di sostanze endogene d'emergenza, le acroagonine, supremo sforzo di difesa dell'organismo. Si sa che le ipotesi sono agevoli e le dimostrazioni difficili. Talvolta, sono solo «rinviate». Ma oggi che lo studio dei metaboliti fisiologici e patologici è in pieno fervore, con aperture affascinanti, può darsi che certi effetti psicoattivi, in certe condizioni, trovino una certa ammissibilità. Pietro Di Mattei

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