Bibi Andersson: il mito della bellezza è schiavitù per la donna nel cinema

Bibi Andersson: il mito della bellezza è schiavitù per la donna nel cinema Incontro con l'attrice interprete dei film di Bergman Bibi Andersson: il mito della bellezza è schiavitù per la donna nel cinema Taormina, 3 agosto. Se Ingmar Bergman dovesse raccontare in un film la storia di una delle sue grandi attrici, che ha diretto e portato al successo, forse comincerebbe proprio con un'intervista. La macchina da presa piazzata su una spiaggia alla moda come quella di Taormina. In alto il teatro greco, di fronte il mare, gli scogli della piccola insenatura, le barche che beccheggiano nel luminoso meriggio d'estate. In campo lungo, sedute su una sedia a sdraio, sotto l'ombrellone, una donna e una bambina. Lei è Bibi Andersson, interprete di II settimo sigillo, Il volto, Persona. Una tunica bianca copre il due pezzi, sulla fronte una visierina da tennista. La piccola, sua figlia Jane di sei anni, sta piangendo con tutta la disperazione dell'infanzia. La madre cerca di consolarla con parole e sguardi teneri, la bacia la accarezza. La macchina da presa si avvicina alla scena accompagnando il personaggio di un giornalista che arriva intempestivamente a rompere l'intimità familiare per proporre il vecchio rituale dell'intervista. Jane, senza celare il disappunto, si allontana dalla mamma per raggiungere gli amichetti impegnati in una festa di compleanno, sul vicino terrazzo dell'albergo. Dal domestico al professionale: il passaggio è immediato, ma senza stacchi bruschi, da autentica grande attrice. Ora soltanto primi e primissi- mi piani, con qualche breve panoramica sulla spiaggia e sul mare, o qualche «zoom» per seguire lo sguardo della donna che cerca il volto serio della figlia nel gruppo di ragazzi in chiassosa allegria. Bibi Andersson, 42 anni, una più che ventennale carriera cinematografica e teatrale, attrice della grande scuola svedese (che da Greta Garbo arriva fino a Ingrid Thulin, Lìv Ulmann, Harriet Andersson), parla del suo lavoro e della sua esperienza nel mondo dello spettacolo. A Taormina era nella giuria del Festival delle Nazioni, a New York reciterà La notte delle tribadi di Enquist con Max Von Sydow, in Francia deve girare il film Giustizia di Cayatte con Annie Girardot, poi dovrebbe tornare in Svezia per una pellicola di SjOman. «Nel nostro Paese — spiega — il mestiere dell'attore è lungo e difficile. Non è possibile raggiungere il successo dall'oggi al domani. Il cinema per lo più attinge professionisti sperimentati dal palcoscenico. Sono rari i casi di attori presi dalla strada con un bel volto, ma senza esperienza di recitazione e per i quali è necessario il doppiaggio. Un pubblico potenziale di pochi milioni di spettatori non consente agli attori di vivere coi guadagni del cinema. Perciò 10 scambio tra il teatro e lo schermo è continuo». Anche per i divi famosi esistono gli stessi problemi? «Il fenomeno del divismo per un attore svedese, se esiste, è un fatto che riguarda i paesi stranieri. Ed è sempre legato al nome di Ingmar Bergman. In Svezia il massimo compenso pagato per gli interpreti più bravi e popolari non supera mai i 20 mila dollari (circa 18 milioni di lire). Indubbiamente per chi ha mercato fuori dei confini patri, grazie al lavoro con Bergman. le tentazioni di accettare offerte all'estero non sono poche». Dopo aver raggiunto altissime punte espressive come interprete, ha mai pensato di passare dietro la macchina da presa e dirigere un suo film? «Non mi è mai venuta una tale idea — risponde, finalmente con un sorriso —. Ho troppo rispetto verso l'attività del regista per tentare una simile esperienza. Lo considero un Impegno terribile. Per fare un film si deve lottare due anni, soffrire uno e, forse, vergognarsi per tutto l'anno successivo. Gli attori possono passare attraverso i fiaschi con più leggerezza». Ma se decidesse di farlo, quali attori sceglierebbe? Sorride ancora. «Vorrei Gian Maria Volontà e Alberto Sordi come protagonisti. Sarebbero due grandi amici che parlano della loro vita, dei loro rapporti con le donne e sarebbero entrambi innamorati di Lina Wertmuller». A parte la singolare «isola» del cinema svedese, perché secondo lei la donna nei film oggi non trova parti importanti, da protagonista assoluta? «Anche il cinema è in mano agli uomini — dice —, produzione, sceneggiatura, regia. Il movimento femminista ha poi creato terribili complessi: quelli che vorrebbero parlare dei problemi della donna, spesso, li evitano temendo accuse e attacchi. I tabù da abbattere sono numerosi, ma prima di tutti quello della bellezza. In campo femminile è stato un condizionamento pesantissimo, un'autentica prigione. La più grande emancipazione di questo mondo, finora, non è riuscita a cancellare il modello della bellezza. Se non si supera, non si potrà fare nulla di veramente costruttivo. Ci sono altre difficoltà: le donne devono dimostrare che i loro prodotti possono essere anche commerciali; quando hanno possibilità di realizzare qualcosa in proprio spesso rischiano di copiare i maschi subendo la loro ottica tradizionale; la scelta sempre più frequente della formula del collettivo che rischia di diventare emarginante. Alla base di tante paure, errori e insicurezze c'è forse il fatto che la donna è da secoli educata ad aiutare un uomo: il padre, 11 marito, il figlio. La completa emancipazione in una società maschile richiede una lunga e dura lotta». Poi raggiunge la figlia: la festa dei bimbi è finita. Jane piange ancora, la madre la abbraccia e torna a sussurrarle cose dolci nell'orecchio. La macchina da presa si allontana lentamente. Sulla scena rimangono due donne sole, con i loro problemi. s. cas. Bibi Andersson, una delle grandi attrici di Bergman

Luoghi citati: Francia, New York, Svezia, Taormina