Tra i macabri fantocci che annunciano Hitler
Tra i macabri fantocci che annunciano Hitler Un dramma di Horvàth nei parchi Tra i macabri fantocci che annunciano Hitler E* la terza o quarta volta che ci capita di parlare di Odòn von Horvàth e dei suoi drammi rappresentati a Roma, a Milano e in altre città, ma è la prima volta che il pubblico torinese ha potuto averne una conoscenza diretta (se si tace di Avanti e indietro messo in scena al Carignano da alcuni universitari). Glie l'ha presentato in queste sere, nei « punti verdi » del Rignon e del Sempione, il Teatro Uomo di Milano con due recite di Fede speranza carità che, per fortuna, è tra le coso migliori di questo drammaturgo e romanziere tedesco di origine ungherese, fiumano di nascita, cresciuto e vissuto in tutte le capitali mitteleuropee finché il nazismo non lo costrinse all'esilo. Morì a Parigi nel 1938, ucciso da un albero durante un temporale: aveva appena 37 anni. Questa prima e fuggevole conoscenza, che esclude gli allestimenti di Kasimir e Karoline e di Notte all'italiana curati rispettivamente da Enriquez per il Teatro di Roma e da Guicciardini per il Gruppo della Rocca, potrà rafforzarsi con le recite torinesi di Storie del bosco viennese, annunciate dallo Stabile per la prossima stagione nella messinscena, ancora di Enriquez, dello Stabile di Trieste, e delle quali Fede speranza carità può dare un'idea adeguata purché si tenga conto che è il più disperato e pessimista dei drammi maggiori di Horvàth. Ma si badi alla data, 1932: Hitler è ormai alle porte, già i teatri della Germania rifiutano per paura i testi horvathiani. « Piccola danza macabra » è il sottotitolo che l'autore stesso ha dato a un dramma che incomincia e finisce in un obitorio al quale la giovane Elizabeth, ridotta alla fame, cerca di vendere il proprio futuro cadavere — ma i soldi subito — per ottenere una licenza di commercio ambulante, e dove presumibilmente sarà portata dopo il suo suicidio. Questa intrepida ragazza, che passa di fallimento in fallimento, di delusione in delusione ripetendosi tuttavia « Non m'arrendo », è la sola persona verso la quale l'autore mostri un barlume di simpatia e di pietà. Gli altri personaggi, anche chi forse non lo meriterebbe, sono schiacciati da un'obiettività che li esamina come insetti (o come reperti anatomici?) al microscopio svelandone inesorabilmente la mediocrità e la viltà di piccoli borghesi. Nel gruppo che si agita intorno a Elizabeth, sia per tenderle, talvolta ipocritamente la mano, sia per spingerla sempre più in giù a colpi di articoli di legge che condannano disumanamente le più lievi infrazioni (l'autore si è ispirato a un caso narratogli da un cronista giudiziario e lo ha assunto a simbolo della lotta gigantesca tra l'individuo e la società), si nota, ma non si salva, un poliziotto con il quale la ragazza convive ma senza avere il coraggio di rivelargli i piccoli reati commessi e dei quali per altro ha già pagato il fio. Abbandonata dall'amante che ha scoperto la verità, Elizabeth si getta nel fiume, più per fame che per amore, viene ripescata da un passante, ma muore poco dopo nella stazione di polizia dove è stata portata. Tutti questi personaggi, e la stessa Elizabeth, esprimono i propri sentimenti, spiega l'autore, in maniera kitsch, cioè falsandoli e degradandoli. Perciò non possono essere rappresentati come uomini, ma come simulacri, false sembianze, e falso è il loro linguaggio di frasi fatte, luoghi comuni, espressioni prese a prestito dalla burocrazia o dalla letteratura da quattro soldi. Il che basta per capire le difficoltà drammaturgiche che deve affrontare Horvàth e per apprezzare l'intelligenza e anche la sottigliezza con le quali le risolve, rifiutandosi tuttavia di cadere nel tranello, o nella soluzione di comodo, della parodia. Anche lo spettacolo cerca di evitare la parodia preferendo, quando non cede alla tentazione della facile caricatura, puntare sul grottesco. Esso si svolge su una struttura metallica a due piani, di Paolo Bregni e Lorenzo Vespignani come i costumi, popolata da manichini e talvolta da attori che si muovono come fantocci da giostra al ritmo di un pianoforte che spreme dalla marcia funebre di Chopin, dalla Bohème pucciniana, e da altre musiche elaborate da Giovanna Busatta, tutto il kitsch con il quale i personaggi le consumano. Ma per i due protagonisti il regista Lamberto Puggelli si è attenuto a una tragicità naturalistica che si palesa anche dalle intonazioni lombarde imposte agli attori e con le quali si vorrebbe conservare alla traduzione di Castellani e Gandini la sua scioltezza popolaresca, da Volkssttick appunto. I risultati di queste complesse operazioni sono notevoli e lo sarebbero ancora di più se il regista non calcasse qua e là la mano e rinunciasse sia al monologo di polemica sociale (inutile perché è già nel testo) aggiunto per Elizabeth, sia a un paio di melodrammatici flashbacks che sanno tanto di riassunto delle puntate precedenti. A parte questi rilievi, la messinscena è lodevole sotto altri aspetti come la fedeltà allo spirito di un dramma allusivo e profetico (l'impressionante marcia militare che chiude lo spettacolo) o l'intonata interpretazione di tutti gli attori tra i quali, con Gianfranco Mauri quasi brechtiano nella sua doppiezza estraniata, va senz'altro ricordata Ivana Monti per la semplicità e la misura, efficacissima, con le quali rende il difficile personaggio dell'ingenua ed entusiasta Elizabeth non senza insinuarvi un sospetto di malizia e di scetticismo che davvero lo completano. Alberto Blandi
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