In Vicenza, tra ville e fabbrichette di Francesco Rosso

In Vicenza, tra ville e fabbrichette FINITA L'EGEMONIA DEI PARROCI NELLA PROVINCIA "BIANCA In Vicenza, tra ville e fabbrichette La città nega i vecchi schemi, se mai furono veri - Già tra i suoi cattolici serpeggiava l'eresia; poi le campagne sono cambiate con l'industrializzazione - All'ombra del Palladio e del Tiepolo, si producono jeans e orologi-gioiello per mezzo mondo Vicenza, luglio. Ci sono momenti in cui vivere a Vicenza diventa emozione fin troppo violenta. Scesa la notte, quando anche la sapiente illuminazione elettrica si spegne, la Vicenza vera, quella antica e intessuta di palazzi che si rimandano come una eco ripetuta all'infinito il nome del Palladio, pare abbia fermato il suo tempo a quattro secoli fa; ma subito, pochi passi appena, e la scena sfora sulla Vicenza nuova, coi disadorni condomìni copiati dalle periferie di Milano e Torino, illividiti dal neon e subito corrosi dalle intemperie. Qualche chilometro fuori porta e, chiusa nel verde, una delle famose ville vicentine, tra le meno sontuose, ma anch'essa con gli affreschi di G. B. Tiepolo ed un parco all'italiana sterminato folto di alberi preziosi, trafitto da un viale di un chilometro ombreggiato da centinaia di pioppi che, per la prospettiva perfetta, sono disposti in modo che si vedano solo i due primi della processione, come le colonne del Bernini in Piazza San Pietro. Vicenza vive anche di tali contrasti, anzi, la sua vitalità si esprime attraverso una complessità di temi che rischia di oscurare le idee a chi vi si accosta un po' superficialmente. Per fortuna ci sono sempre amici ge¬ nerosi che ti riprendono per mano e ti guidano. Il primo fra tutti, patriarca di Vicenza e in seconda di Venezia, Neri Pozza, scrittore, editore, pittore, scultore. Ha la sua casa editrice a Vicenza, poco disco'sto dalla Basilica palladiana, e di lì passa quasi tutta l'intelligenza vicentina, d'ogni colore. Che Neri Pozza conosca la sua città a fondo, è un fatto. Ha pubblicato un denso, prezioso volume, Vicenza illustrata, che può essere considerato la prestigiosa summa della civiltà veneto-vicentina, ma egli è uomo che vuole stare nel coro, il ruolo del solista non gli è congeniale, per questo lo studio della sua casa editrice — e la sua casa stessa — è sempre aperto a chi ha qualcosa da dire. In casa Rumor Da Neri Pozza conosco manipoli di professori universitari, scrittori, politici, e da loro imparo che Vicenza, la città e la provincia più clericali d'Italia, in realtà sono percorse da brividi quasi eretici, certo non sottomesse alla cotta del parroco come di solito si racconta. Ci sono i precedenti di Giacomo Zanella, prete sospettato di eterodossia, e Antonio Fogazzaro, buon cattolico, messo all'indice per il suo romanzo Il Santo. Cattolico sì tutto il Vicentino, ma con varianti non facilmente identificabili in altre province venete. Si potrebbe parlare di un liberal-cattolicesimo, riscontrabile in Guido Piovene ed in Pietro Nardi, quest'ultimo zio di Mariano Rumor. Con l'affacciarsi di questo nome, il discorso svicola in politica. Nessuno a Vicenza sospetta che il prof. Mariano Rumor abbia preso un soldo per sé dall'affare Lockheed, però lo accusano dì mancanza di coraggio; avrebbe fatto meglio, sostengono, a presentarsi spontaneamente alla commissione e dire: «Sono qui, giudicatemi». Non lo fece per salvare il suo peso politico in città e provincia? Ha sbagliato, a Rovigo c'è chi ha saputo fargli il vuoto intorno. Coloro coi quali converso sono anche buoni cattolici, ma con occhi aperti su quanto sta accadendo intorno a loro. La de è ancora fortissima, però non è più quella di prima degli scandali: cioè, non è più la de delle parrocchie. I più spietati sostengono che s'è infilato il cappio da sola quando, al grido «Una fabbrica per ogni campanile», favorì quella microindustria che è la forza economica di Vicenza; ci sono i colossi, Marzotto e Rossi, Pelizzari, Laverda, Lowara, ma c'è come uno sfarfallio di stabilimentucci, i soli che hanno retto bene nella bufera della crisi. E sono quegli stabilimenti-laboratorio che stanno corrodendo col sindacalismo il predominio della parrocchia. Per lungo tempo il prete fu il solo punto di riferimento nella vita dei piccoli centri agricoli; ora questo punto di riferimento è la fabbrichetta, che può anche entrare in conflitto con la parrocchia. Probabilmente questo cavillare sul malessere della società vicentina ha un fondamento, ma è un malessere spirituale antico, incominciato si può dire con la decadenza della Serenissima Repubblica di Venezia, alle cui sorti Vicenza si era legata. Fu città splendida, una «chimera architettonica nata dalla cultura, dalla fantasia umanistica, dalla vanità di pochi gentiluomini. I suoi monumenti sono sproporzionati alla necessità storica», ha scritto Piovene. Quella «chimera» antica continua ad opprimere la coscienza moderna, incapace di conservare quell'esuberante patrimonio. Nel suo libro fondamentale Le ville venete, Beppe Mazzola elenca duemila splendide ville sperdute nelle campagne fra Treviso, Padova e, sopratutto, Vicenza. «Non si possono salvare duemila ville — sosteneva Piovene —. Accontentiamoci di conservare quelle che meritano». «Ma che cos'è questa Rupe Tarpea, questo razzismo architettonico — sostiene Neri Pozza — per cui bisogna salvare soltanto le ville coi Tiepolo, o progettate da Palladio; devono essere conservate tutte, perché ognuna ha un significato nell'ambiente in cui è sorta». Vicenza non ebbe signori mecenati del tipo Gonzaga, Este, Monteféltro; ebbe soltanto ricchi agrari e mercanti ed un genio, il Palladio, che seppe solleticare la loro vanità inducendoli a costruire dimore fastose in campagna, dove i ricchi terrieri trascorrevano l'estate. Ma la villa era lontana, pochi la vedevano; bisognava erigere grandi palazzi anche in città, perché tutti li vedessero. I palazzi in città sono tutti ben conservati; le ville, quelle che non sono di Palladio o non hanno i Tiepolo, è già molto se non crollano. Anche perché i nuovi ricchi vicentini, oggi, hanno altri interessi, industriali anche, ma con inclinazioni più contemporanee per lo svago; non per nulla le più veloci motociclette d'Europa sono fabbricate qui. Questo aspetto diverso della vicentinità lo afferro in casa di Mariangela Ghìrotti, la moglie di Gigi, una casa bellissima sul crinale di un colle da cui sì domina l'ampia pianura aperta fino ai colli Berici. « Su quella panca — mi dice Mariangela — sedeva Gigi al sole, col nostro gatto ». S'intenerisce, ma senza debolezze, come una stoica matrona. La sua casa è un altro dei punti di riferimento per coloro che visitano Vicenza e intendono conoscere la città. Vi ritrovo Lea Quaretti, moglie di Neri Pozza, che ha curato un'antologia degli scrittori vicentini e mi spiega una sua singolare teoria: Vicenza e Verona si sono distribuiti i ruoli; città di scrittori la prima, di pittori la seconda. C'è un giovane architetto che si interessa di restauri delle ville vicentine, magari per arricchirle di dópendences che, piccoli condomìni, possono recare « qualche utile » ai proprietari che devono mantenere i monumenti. C'è un giovane industriale, Renzo Ghiotto, presidente della Lowara, una società che fabbrica pompe e le esporta in tutto il mondo, a Hong Kong, Taipeh, New York, e mi parla malissimo della Pelizzari, ora Iri, che vende sottocosto per fargli la concorrenza. C'è un altro signore, di cui non ricordo il nome, che parla dell'oreficeria vicentina; 450 industrie orafe piccole e grandi nella provincia. « Lo sa — mi dice — che i famosi orologi di... (pronuncia il nome vertiginoso del gioielliere più famoso nel mondo) si fabbricano a Vicenza e costano cinquantamila lire? ». Non I lo sapevo, naturalmente, co- me non so tante cose di Vicenza oggi; forse conosco qualcosa dì più della Vicenza di ieri, per le letture che ho fatto — Montesquieu, ad esempio, e Goethe — e di quel Filippo Rossi Cassigoli, mercante pratese, che s'incantò dinanzi alla casa che fu di Antonio Pigafetta e si riscrisse il motto: « Il n'est rose sans espine ». Pascoli e telai Alla Vicenza odierna mi riporta Antonio Morsoletto, anche lui capitano d'industria per intuito. Il Vicentino, specie sull'altopiano di Asiago, era gran produttore latteo-caseario (lo è tuttora) ed offriva vasti pascoli per le sterminate greggi, che producevano anche lana; i Marzotto ed i Rossi vengono da quelle lane. Poi ci furono le confezioni, e le donne divennero pantalonaie. I loro mariti divennero imprenditori. « Sa quante piccole industrie di confezione, jeans e gonne, ci sono nel Vicentino? » mi domanda il signor Morsoletto. Poiché non lo so, me lo dice lui: centoventi, ed è una bella cifra. « I jeans che lei vede in giro con le etichette celebri vengono tutti da quelle piccole fabbriche anonime; come gli orologi di quel celebre gioielliere parigino ». Anch'egli, bisogna dirlo, fabbrica jeans e gonne, ma non solamente con intenzioni manageriali; egli tiene un occhio anche al comportamento umano, al costume. Perché mai la gente, specie i giovani, portano jeans? Perché costano poco, non impegnano, lasciano il corpo sciolto? Il signor Morsoletto non è di questa opinione, egli vede il fenomeno co¬ me espressione etica del nostro tempo, parla un po' come Fioruccì, il despota italiano dei jeans. Evidentemente il fenomeno dei jeans ha contagiato sociologhi e filosofi, che lo interpretano come un fatto comportamentale. « Guardi quelle scoloriture che certi jeans dei ragazzi hanno sulle parti più in rilievo del corpo; la sessuomania detta accorgimenti inimmaginabili. Quello sbiadimento non è dovuto all'uso, ma è manipolato da coloro che indossano i jeans e procurato con vari mezzi, la conegrina, ad esempio, ma meglio con la pietra pomice, che logora un poco il tessuto ». Non accade, per caso, che anche voi fabbricanti gli diate una mano preparandoli già sbiaditi in quei punti particolari? « No, ci limitiamo a lavarli una volta, ed a spedirli ». Dove? « In tutto il mondo. Siamo i più grossi fornitori di jeans dell'universo; ci ritornano poi in Italia magari, con etichette nuove e celebri ». Ma quanti jeans fabbricate ogni anno? « Qualcosa come sei milioni l'anno; siamo inferiori a Verona come quantità, ma superiori per la qualità ». E se il mercato crolla, se la moda cambia? « I jeans non tramonteranno più; passerà la moda, si attenuerà la sessuomania, non sarà più l'uniforme dei giovani contestatori, ma diventerà tuta, pantalone da lavoro, gonna da disimpegno: e nemmen più blu, ma oliva, verde mimetico, giallo sahariano ». Mariangela Ghìrotti sorride: forse nemmeno lei, sottile scrittrice e psicologa, aveva pensato ai jeans in questi termini. Francesco Rosso