Carter: idealismo più "Realpolitik,, di Aldo Rizzo

Carter: idealismo più "Realpolitik,, I rapporti Usa-Urss Carter: idealismo più "Realpolitik,, Giscard d'Estaing aveva detto, nell'intervista a Newsweek, che Carter « ha introdotto una fresca dimensione ideologica » nella politica estera americana, ma che « ciò ha compromesso il processo di distensione»; e « la questione che ora sorge è se o come i nuovi temi ideologici possano essere applicati senza provocare reazioni negative ». Era un modo corretto, sebbene critico, d'impostare il problema di fondo della politica estera carteriana. Un modo, anche, condiviso da Schmidt; e dunque si poteva parlare di un comune giudizio europeo, nella misura (assai larga) in cui Francia e Germania rappresentano l'Europa. Carter ha risposto nel discorso di Charleston, e nella sua replica, che ovviamente è diretta anche e soprattutto all'Urss, viene ribadito che l'intenzione della Casa Bianca è di « dar voce sul piano intemazionale alle fondamentali aspirazioni degli americani» (diritti umani) e nello stesso tempo di « raggiungere soluzioni durevoli alle divergenze Est-Ovest ». Però è nuova, o più esplicita di altre volte, l'affermazione che « noi dobbiamo sempre conciliare il realismo con la difesa dei principi». Il realismo non fu sempre osservato in passato, cioè agli esordi della nuova amministrazione. Il caso più chiaro fu la missione a Mosca di Vance, nel tentativo di sbloccare il negoziato strategico. Non solo il segretario di Stato di Carter arrivò nella capitale sovietica preceduto da un clamoroso « battage » sui diritti civili nell'Europa comunista, ma pretese anche di modificare di colpo i termini dell'accordo-quadro di Vladivostok sulle armi strategiche. Fu un grave peccato d'ingenuità, che pesò anche sui successivi colloqui di Ginevra tra Vance e Gromjko, benché il segretario di Stato già rettificasse il tiro. L'ingenuità, fondamentalmente, era nel credere che un sistema di potere come quello sovietico potesse accettare di discutere su una questione-chiave quale quella dell'equilibrio missilistico-nucleare, isolandola dal contesto generale dei rapporti tra le duemassime potenze, rimesso in forse dalla campagna sui diritti umani. Per i capi del Cremlino tale campagna era fonte di ogni possibile sospetto, giacché contestava, indirettamente, la legittimità del potere sovietico. Ogni tema specifico ne risultava subordinato, e tanto più se i suoi stessi termini tecnici venivano forzati, sia pure per il migliore dei fini, come un avvio al disarmo nucleare. Invece era chiaro che la nuova politica estera « ideologica » poteva si essere portata avanti con decisione, ma sapendo di pagare un prezzo alto e complesso, cioè il prezzo di una dura resistenza dell'Urss a modificare le proprie regole di comportamento, quindi una serie di confronti e anche di scontri, con la sola garanzia dell'impossibilità oggettiva di uscire dal quadro della coesistenza. La resistenza dell'Urss venne fuori comunque e pose tutta una serie di questioni: stimolando la diffidenza, già acuta di per sé, del potere oligarchico di Mosca, non si correva il rischio di provocare un irrigidimento ulteriore del quadro interno dell'Est, dunque un risultato opposto a quello auspicato? Se c'era una qualche dialettica dentro il Cremlino tra i soliti falchi e le solite colombe, non si poteva finire per fare il gioco dei primi? Inseguendo i diritti umani o il disarmo atomico, non c'era il caso di arrivare a una nuova e incontrollabile corsa agli armamenti? E così via. Di fronte a simili questioni, echeggiate dalla « Realpolitik » franco-tedesca, l'atteggiamento di Carter cominciò a precisarsi già al vertice di Londra del maggio scorso, nel senso di esaltare, a fianco della « competizione ideologica », l'importanza della « cooperazione politica ». Ma certo Breznev non ne fu rassicurato, a giudicare dallo sfogo che deve aver fatto a Giscard nell'incontro di Parigi e del quale lo stesso presidente francese ha tracciato in qualche modo una sintesi nell'intervista a Newsweek. Di qui le nuove e più nette precisazioni del discorso di Charleston. Qui il ritorno al realismo è soprattutto in questa frase: «Io ritengo che un clima di cooperazione pacifica tra i governi sia molto più adatto ad accrescere il rispetto per i diritti umani di un'atmosfera di ostilità e di confronto ». Sembra accertato il concetto che lo sviluppo della distensione sia una condizione anche per una migliore tutela dei diritti civili, o almeno che la crisi della distensione e un ritorno alla guerra fredda non potrebbero certo favorire processi di liberalizzazione nell'Est. D'altra parte viene chiarito con enfasi che la politica dei diritti umani non costituisce « un attacco » agli « interessi vitali » dell'Urss, non essendo « rivolta in maniera specifica verso nessun particolare Paese o zona del mondo, ma ugualmente a tutti i Paesi, incluso il nostro ». Basterà questo discorso a rassicurare i potenti di Mosca? E' una risposta sufficiente all'interrogativo giscardiano « se o come i nuovi temi ideologici possano essere applicati senza provocare reazioni negative»?. Tutto dipende dalla dimensione pratica che raggiungerà la rivalutazione carteriana del realismo, al di là delle formulazioni generali. Non queste interessano ai russi, ma gli atti concreti, cioè il fatto che Carter prenda o non prenda certe posizioni ai prossimi episodi di repressione del dissenso nell'Est sovietico. E Carter non ha fornito garanzie in questo senso, anzi ha ribadito, pur con tutti gli accorgimenti tattici, la continuità della sua linea di fondo. Però, via via che si esaurisce, o si va esaurendo, la fase di studio reciproco, anche l'Urss è chiamata a dar prova di un suo realismo. Essa deve tracciare una linea di confine tra ciò che giudica intollerabile nell'atteggiamento americano, dal punto di vista della difesa del proprio sistema di potere, e ciò che può essere compatibile con quella « cooperazione politica » che giova ad essa non meno e per molti versi più che agli Stati Uniti. Dissipato il sospetto che Carter punti a una destabilizzazione brusca del suo impero, l'Urss dovrò decidere se rassegnarsi o meno a convivere, dialetticamente, con una America che non intende comunque rinunciare a una ridefinizione creativa del proprio ruolo nel mondo. E anche gli europei dovranno fare i loro conti: magari per accorgersi che la loro riserva storica di « Realpolitik », per quanto apprezzabile, non surroga l'assenza di un disegno autonomo, rispetto a quello dell'America di Carter, Aldo Rizzo

Persone citate: Breznev, Giscard D'estaing, Schmidt