Begin parla oggi a Carter "Ecco il mio piano segreto,, di Vittorio Zucconi

Begin parla oggi a Carter "Ecco il mio piano segreto,, Viva attesa per i colloqui del premier israeliano sulla pace in Medio Oriente Begin parla oggi a Carter "Ecco il mio piano segreto,, (Dal nostro corrispondente) Washington, 18 luglio. Un sottile, ma sensibile mutamento di atmosfera accompagna l'arrivo del primo ministro israeliano Menachem Begin a Washington. Temuto come l'occasione di un confronto, se non di uno scontro, il viaggio del nuovo premier promette oggi di svilupparsi forse in un avvenimento non propagandistico e costruttivo per la pace. Begin, che ha lasciato stasera New York e vedrà Carter domani e mercoledì, porta con sé un misterioso «piano di pace» che intende rendere pubblico dopo i colloqui con il Presidente, se Carter sarà d'accordo. Del piano non si sa ancora nulla, e Begin non ne ha rivelato il contenuto neppure ai leaders della comunità israelitica di New York con i quali ha trascorso il weekend discutendo di politica, di finanza, di appoggio «morale». Ma da Washington ci si attende una serie di proposte ragionevoli, capaci di costituire il primo passo di un nuovo negoziato, non una cortina di fumo verbale per guadagnare tempo. Begin, salutato con diffidenza al momento della sua elezione dalla stampa americana anche più filo-israeliana, è riuscito molto abilmente e in breve tempo a sfuocare la sua immagine di falco, a far dimenticare il suo passato di guerrigliero. Oggi egli viene accolto, sia dalla sua gente in America, sia dagli osservatori politici, come un capo duro, ma non irresponsabile, un uomo che dietro le parole accese potrebbe, più di Rabin e della Meir, avere nella borsa il segreto della normalizzazione mediorientale. Da questo punto di vista il viaggio in America è per lui già un grosso successo, che la parte ufficiale della visita dovrebbe sigillare. Si dice che Begin e Carter abbiano in certo modo percorso la stessa strada, non solo dalla fede religiosa alla prassi politica (come Brzezinski ha sottolineato abilmente iti un'intervista con giornali israeliani) ma dalla effervescenza verbale ad un atteggiamento più discreto. L'oltranzismo sionista di Begin candidato ha lasciato il posto a parole più morbide e dichiarazioni di qualche disponibilità. Le formule di Carter («una patria per i palestinesi») si sono fatte più sfumate ed oggi il Presidente parla di «entità» palestinese, molto più genericamente. Rimane da vedere quanto questo reciproco addolcimento formale corrisponda alla realtà sostanziale, ma per lo meno è chiaro che Carter e Begin non si abbandoneranno ad una guerra di slogan. Esistono ancora differenze importanti fra i due Paesi. Si dice che Begin sia ancora favorevole alla diplomazia dei piccoli passi, mentre l'amministrazione Carter vuole un accordo globale. La Casa Bianca ha approvato un documento del Dipartimento di Stato (un ente assai meno sensibile ai problemi elettorali e di politica interna) nel quale si ripete la necessità del ritiro quasi totale dai territori occupati come condizione necessaria alla pace, mentre Begin intende cedere il meno possibile e il più tardi possibile, soprattutto sul fronte giordano (il Sinai sembra cedibile, il Golan negoziabile). Infine, Washington — pur avendo abbandonato il senso d'urgenza sottilineato mesi fa — ha fretta di muoversi, mentre Begin chiede ancora tempo per consolidare la propria base di potere. Si è saputo oggi che il premier israeliano chiederà al segretario di Stato Vance di rimandare di qualche giorno, forse due o tre settimane, la visita in programma per la fine del mese in Medio Oriente (Egitto, Giordania, Siria e Israele). Queste differenze, che secondo gli ottimisti sono marginali e secondo i pessimisti vanno al cuore del problema e lo rendono irrisolvibile, non sembrano turbare troppo la Casa Bianca, ancora convinta che la conferenza di Ginevra sia convocabile in autunno (si sente fare una data: 10 ottobre, ma non è chiaro su quali basi). Essa sottolinea al contrario i punti sui quali si può cominciare già a lavorare: l'ammissibilità di una rappresentanza palestinese all'interno della delegazione giordana, la possibilità di separare, nei territori eventualmente restituiti da Israele, il momento della sovranità civile da quella militare, per dare agli arabi le terre, senza togliere a Israele il feticcio della «sicurezza» strategica. Più ritiro per accontentare gli arabi, dunque, e meno sovranità per calmare gli israeliani, con una serie di misure e di congegni elettronici a far da spartiacque fra le due cose. Washington è convinta — e questo spiega la fretta che Carter mostrava nella sue prime dichiarazioni sul Medio Oriente — che gli arabi non siano mai stati così vicini alla concessione del riconoscimento del diritto ad esistere di Israele, una convizione che Begin discute. Ma Carter chiede allo Stato ebraico di «lasciarlo provare», di dargli abbastanza «concessioni possibili» per mettere alla prova la buona volontà araba e in questa direzione la Casa Bianca premerà con tutta la forza di cui dispone. Carter si è assicurato le retrovie, ricevendo a colazione 40 leaders ebrei americani e convincendoli della inflessibilità del suo impegno pro-israeliano (la voce di una possibile base aereonavale Usa in Israele fu messa in circolazione anche per questo) ed ora, con discrezione pubblica e fermezza privata, si prepara a chiedere a Begin di aiutarlo a «vedere» le carte degli arabi, se in esse vi sia davvero disponibilità alla pace o solo bluff propagandistico. Un contrasto di fondo, o una rottura fra le due nazioni è ancora fuori dalla realtà. Israele ha troppo bisogno dell'America, delle sue armi e del suo aiuto finanziario (come dimostra il persistere della crisi economica) per pote¬ re ignorare i richiami della Casa Bianca o contare esclusivamente sul «Lobby ebraico», potente certo, ma non onnipotente. L'America ha ancora bisogno di Israele per la sua politica mediorientale, e come polizza di assicurazione strategica in un bacino come quello mediterraneo, perennemente instabile. Ci si può chiedere «chi ha più bisogno di chi», soprattutto ora che il mondo arabo sembra allontanarsi sempre più dall'influenza e dalla simpatia sovietica, ma neppure la nevrosi degli israeliani può immaginare che Carter stia per abbandonarli e che essi debbano contare per difendersi solo sulle poche miglia di terra che li dividono dai loro nemici. La quantità delle concessioni territoriali che Israele è disposta a fare è certamente una funzione di questa paura e Begin proprio per il suo fanatismo religioso e oltranzismo politico apparenti è forse l'uomo giusto per esorcizzare gli incubi di Israele. Almeno questo è quanto Washington vuol credere oggi. Vittorio Zucconi New York. L'incontro di Begin con il rabbino Schneerson, leader dei « Hassidinn »