Voci libere a Ginevra

Voci libere a Ginevra ALL'ISTITUTO DI ALTI STUDI Voci libere a Ginevra Un declivio di prato scende verso il lago di Ginevra; al di là delle acque tranquille si eleva immacolato il Monte Bianco e da mezzo secolo a chi si pone in questa cornice e da questa visuale è lecito sognare da una nazione in pace un mondo in pace; la visuale è quella che si gode dall'Istituto ginevrino « di alti studi internazionali » che ha finito di celebrare in questi giorni il suo cinquantenario. Le antiche strutture ottocentesche d'una spaziosa villa, ancorché ammodernate, non sono state ampliate per non alterare l'armonia del parco circostante ma sono sorti, mimetizzati da piazzole fiorite, vari seminterrati cementizi che oggi albergano annessi e dipendenze, ivi compresa una caffetteria. Gli studenti si son moltiplicati dai lontani Anni Trenta e una voce straniera con accento francese spiega ad un crocchio di condiscepoli: parce que, vous voyez, la fante est aux dictateurs; dal colore olivastro lo si giudicherebbe annamita, forse sud-coreano. La sua constatazione fa ripensare al molto ma anche al poco di mutato dai tempi delle dittature: i tempi eroici dell'Istituto (l'Istitù, lo chiamava alla piemontese Guglielmo Ferrerò) quando su quella stessa sponda, ai margini di quello stesso parco la Lega delle Nazioni soggiaceva impotente alle sfide, alle beffe, alle minacce delle dittature in ascesa e sui cieli d'Europa s'addensavano nubi foriere d'uragani. L'idea di fondare un centro di studi internazionali, autonomo ed a latere dell'università ginevrina, originò dal rettore della medesima, William Rappard, con un preciso scopo: dare una voce alle molte personalità dell'Europa che avevano una parola da dire sull'avvenire della pace e dare una mano a ciò che v'era di praticabile nei propositi della « Lega »; ma per consentire la più completa libertà d'espressione, queste attività essenzialmente non-governative vennero staccate dalle limitazioni istituzionali dell'università ufficiale ed avviate a un ambiente d'incontro per le celebrità officiate di « corsi temporanei » e ad un punto d'ascolto per studenti e studiosi. Nel caso dell'Italia, tra questi incaricati figuravano per lo più nomi insigni, ridotti al silenzio nella loro patria. Così troviamo, nel 1928, Luigi Einaudi svolgere un corso sulle conseguenze internazionali della politica tributaria e il sen. Francesco RufHni tenerne uno sulla protezione internazionale dei diritti d'autore (1930) mentre Luigi Salvatorelli, terzo cattedratico che aveva rifiutato il giuramento di fedeltà al duce, trattò il tema « Chiesa cattolica e società europea nel secolo XIX» (1935). Già nel 1931 il conte Sforza aveva tenuto un corso sulla politica della Santa Sede dal congres so di Vienna ai patti lateranensi, Egidio Reale (vent'anni dopo ambasciatore a Berna) su « Risorgimento e l'Europa » mentre Gaetano Salvemini trattò della diplomazia italiana durante la guerra del '15-'18. Il Cesare Alfieri, di Firenze, figura col nome del prof. Malvezzi de' Medici. Nel corso delle visite, rapide o prolungate, ai bordi del Lemano i conferenzieri, oltre ai temi svolti di fronte agli allievi e a numerosi uditori, intrecciavano incontri, scambiavano vedute, interrogavano, erano interrogati. Ne risultava non già un'escursione ma un ambiente. Se italiani, facevano capo alla casa ospitale e signorile di Guglielmo Ferrerò dove la musa della storia s'affiancava a quelle della poesia e delle arti nella persona del giovanissimo Leo Ferrerò, promessa dell'Italia e dell'Europa, prematuramente stroncata; se stranieri, rappresentavano quanto di più illustre v'era allora nel campo del diritto, delle scienze sociali o della storia diplomatica, dalla Danimarca alla Grecia, dall'Olanda alla Romania, dall'Uni¬ versità di Oxford alla Sorbona, dalla London School of Economics alle maggiori università americane. Si trattava di uomini, pur di provenienze diverse, d'orientamento omogeneo accomunati da una sollecitudine: come salvare la pace? Una domanda che dopo l'ascesa al potere del nazismo s'identificò con un'altra: come fermare Hitler. Ma si poteva? Le ipotesi irreali di come sarebbero potuti andare i fatti alle svolte decisive della storia costituiscono il dramma che gli storici debbono far rivivere: un sottinteso che ogni volta ci fa trepidare al racconto, putacaso, della battaglia di Waterloo quando, dall'altura donde dirigevano l'azione. Napoleone e il suo stato maggiore avvistarono come in un polverìo l'approssimarsi d'uomini e di cavalli e un balenar di sciabole e fucili. « Siamo salvi » si dissero l'un l'altro. Pensavano ai soccorsi. Scrive Victor Hugo: c'était Bliicher! Del pari, l'ipotesi irreale d'un Hitler arrestato nel suo gioco d'azzardo coi destini del mondo, prima che fosse troppo tardi, ravviva l'interesse dei posteri sugli anni decisivi. Non si parlava d'altro, in quei tempi, a Ginevra e chi scrive, ed ebbe la fortuna d'ascoltarvi i discorsi e di raccogliervi le ansie dei contemporanei sulla svolta fra il '37 e il '38, ha l'impressione che la storia, vale a dire gli archivi e le testimonianze, convergano su di una conclusione: era possibile salvare la pace fermando Hitler prima dell'An- schluss, l'invasione dell'Austria nel marzo del '38; ma non dopo. E' singolare che le cancellerie d'allora non avessero inteso il fatto principale della nuova geografia dell'Europa uscita dal trattato di Versaglia: la repubblica austriaca ne era la chiave. Ben lo sapeva l'austriaco Adolfo Hitler che aveva assimilato la geografia di casa. Dopo occupata Vienna gli eserciti tedeschi erano in grado di stringere la Cecoslovacchia in una morsa, da Nord e da Sud, senza possibilità di soccorsi da Occidente; poi, conquistata questa posizione, di prendere a tenaglia la Polonia, senza possibilità d'arrestare l'egemonia tedesca sull'Europa se non con una guerra. Mai fu così vera l'analogia con il gioco del dòmino. Viceversa un'azione congiunta di Francia ed Inghilterra uel marzo del '38 avrebbe arrestato i pochi e male armati reggimenti di Hitler senza colpo ferire e svelato il suo bluff. Ma i politici e i « tecnici » (cioè i diplomatici) di Parigi e di Londra opinarono che contrastare VAnschluss fosse principalmente interesse italiano. Dopo VAnschluss però i Ferrerò, i Salvemini, gli Sforza che s'incontravano a Ginevra nonché gli osservatori più attenti nell'ambito (allora si diceva il rayonnement) dell'Istituto di « alti » studi internazionali videro inarrestabile la concatenazione degli eventi. Non v'era più bisogno di « alti » studi. Bastava un atlantino dell'Europa. Livio Zeno