Chiusure, crolli e cultura di Luigi Firpo

Chiusure, crolli e cultura Cattivi pensieri di Luigi Firpo Chiusure, crolli e cultura Qua e là, senza congruo preavviso, nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma crollano soffitti. Dovunque si ammassino libri in quantità, la sensazione di peso schiacciante e il timore di cedimenti nelle strutture si respira quasi nell'aria, specie poi se le biblioteche hanno dovuto trovare asilo in palazzi reali abbandonati o in vecchi conventi deserti. Costruiti per tutt'altri scopi, con voltoni solidi ma non calcolati per immani pesi radenti, quegli edifici venerandi hanno talvolta rivelato crepe sinistre ma, nel complesso, hanno retto ai carichi crescenti e alle non previste funzioni. Frati e re costruivano con un alto senso dell'istituzione di cui erano parte, quasi fosse destinata a durare in eterno, e anche le loro fabbriche venivano progettate per l'eternità. Fino a quando la Nazionale di Roma fu ospitata dal massiccio e austero palazzo del Collegio Romano — scomodo e buio come si addice a un severo istituto formativo della Compagnia di Gesù — scricchiolii ed allarmi non mancarono, ma, a posteriori, sembrano oggi pretesti allarmistici utili per indurre il governo ad erigere finalmente una sede nuova, moderna, disegnata apposta, o magari soltanto per chiudere i battenti per qualche mese, espellendo l'unico elemento davvero scomodo e fastidioso in una istituzione libraria: il lettore. Mentre il Collegio Romano è ancora li, rupe che sfida i secoli, la nuova sede non si limita a scricchiolare: crolla. E non per vetustà, visto che è nuova dì zecca, faraonica profusione di spazi, marmi e cristalli, inaugurata da poco più di due anni, per l'esattezza il 31 gennaio 1975. Crollo, dunque, precoce, anche a voler trasferire sui pubblici edifici, pagati col pubblico denaro, quel senso di precarietà che talvolta ci raggela nella fatica del vivere quotidiano. Rinunciamo pure alle Piramidi e ai millenni, ma due anni e mezzo dal taglio del nastro tricolore alla fatiscenza sembrano davvero troppo pochi, e qualcuno potrebbe auspicare un qualche pretore — se non d'assalto, almeno di prima linea — che volesse veder chiaro nei capitolati d'oneri e nei collaudi. A me interessa invece un altro aspetto, forse più sotterraneo, ma non meno significativo. Tutti sappiamo che talvolta sembra affiorare dalle cose una sorta di malignità segreta, di perfidia umanoide. Ci sono cose che feriscono intenzionalmente, altre che ci beffano, altre che esercitano vendette. Nel caso romano non deve sfuggire all'osservatore attento che sono i soffitti che crollano, non i pavimenti; non sono i libri che premono, ma le strutture che non bastano neppure a reggersi da sole; non si attenta all'incolumità generale dei frequentatori, bensì, in modo preminente, a quella delle loro teste. Non si vorrà colpire proprio l'organo più necessario per un lettore? Si dovrà mettere all'ingresso un avviso che ingiunga: «Depositare la borsa e ritirare l'elmetto»? Quella che resta incomprensibile è questa dissociazione del soffitto dalla soletta, questo continuo strafare. Tutta l'università di Friburgo è costruita in cemento bruto, bellissimo; Hartford nel Connecticut, duecentomila abitanti, ha una biblioteca sobria, pro¬ gettata a misura d'uomo, con quattro miliardi l'anno da spendere in libri e servizi. In Italia, no. Tutti gli architetti sono ormai razionalisti, ma il loro segreto maestro rimane Brasìnì, quello che sull'alba degli Anni 30 costruì la stazione di Milano in stile assiro-babilonese: volte che si perdono nelle tenebre, sculture e mosaici, sedili delle sale d'aspetto che sembrano troni asburgici, erte scalee impraticabili. Bastava una statura dì metri 1,55 per fare il soldato o H monarca, ma l'edificio pubblico era progettato per una stirpe di giganti, doveva essere marmoreo e megalitico, enfatico e inutilizzabile. La Biblioteca di Roma spende somme favolose per lucidare vetrate sconfinate e fughe dì marmi; le distanze dall'ingresso alle sale dì consultazione esigono l'impiego del monopattino; tutto è retorico, scenografico, inaccessìbile. Al Brìtish Museum, con trenta passi si va dal frontone neoclassico al centro della sala di lettura, il catalogo a stampa è d'una nitidezza eloquente, in pochi minuti sì hanno libri, consegnati al proprio posto di lettura e in numero illimitato. A Roma, la distribuzione si chiude alle 13,30, l'ora fatale per buttare la pasta, schiacciare la pennichella, dedicarsi con fresche energie al lavoro «nero». Ma alla Nazionale di Torino si chiude alle 14, alla Palatina di Parma e in altre biblioteche statali anche prima. Dunque le chiusure per crolli rappresentano solo una lieve riduzione dell'orario, in un sistema che sembra organizzato per scoraggiare e intralciare la cultura, riservandola agli sfaccendati e agli eroi. So che il ministro dei Beni culturali on. Pedini ha chiesto recentemente ai direttori delle Biblioteche di trovar modo di protrarre gli orari. Grazie, signor Ministro, dal profondo del cuore. Anche un'ora di più sarà una manna. Non dimentichi però che il traguardo ragionevole sono le ore 20, anche se, come sogno d'una notte d'estate, la fantasia mi sussurra: «mezzanotte, mezzanotte...».

Luoghi citati: Connecticut, Hartford, Italia, Milano, Roma, Torino