P.M. magistrato anfibio di Clemente Granata

P.M. magistrato anfibio IL PASSO LENTO DELLA GIUSTIZIA IN ITALIA P.M. magistrato anfibio Il pubblico ministero sta a mezza strada tra il poliziotto e il giudice - Ma gli uomini di cui dispone continuano a dipendere dal governo - D'altra parte i capi del p.m. non hanno responsabilità politica - Da queste incongruenze, conflitti e ritardi (Dal nostro inviato speciale) Roma, 1 luglio. Dicono parecchi magistrati del pubblico ministero: « Se disponessimo in modo effettivo e diretto della polizia giudiziaria, il passo dell'inchiesta sarebbe più sollecito ed efficace, la crisi della giustizia meno evidente. Gli uomini assegnatici, invece, sono pochissimi e adibiti soprattutto alla trasmissione di fonogrammi o a mansioni di segreteria. Conseguenza: per lo svolgimento delle indagini dobbiamo servirci di ufficiali ed agenti, che operano nelle rispettive sedi (carabinieri. Guardia di Finanza, Questure) e dipendono in linea gerarchica da tre di¬ versi ministeri con tutti gli inconvenienti che ciò può provocare. La possibilità di svolgere inchieste rapide ed incisive dipende dalla buona volontà dell'esecutivo di metterci a disposizione del personale, sema contare poi l'aspetto patologico, costituito dalla piaga di possibili interferenze dello stesso potere, quando ad esemplo si accertano reati della pubblica amministrazione. Altro che disponibilità diretta della polizia giudiziaria, come vuole la legge fondamentale ». E' un amaro sfogo, che abbiamo semplificato al massimo. Gli interventi dei magistrati, in realtà, sono più articolati, tra le singole posizioni esistono sfumature. accenti diversi. Ma ci sono punti di contatto e il discorso, ridotto all'osso, è quello. Perché dunque non è stata attuata (o lo sì è fatto solo parzialmente) una precisa disposizione costituzionale? Una prima risposta è la seguente: i vari corpi di polizia non hanno molti uomini; come si può pretendere di distaccarne una parte per costituire consistenti nuclei di polizia giudiziaria presso gli uffici dei magistrati? E poi, cosa sarebbero questi nuclei? Un altro corpo di polizia che si aggiunge a quelli esistenti? Ma non c'è già una proliferazione? Risposta valida, ma soltanto in parte, si obietta. Il fatto è che il problema introduce uno dei capitoli più delicati dell'amministrazione della giustizia, chiama in causa la configurazione del pubblico ministero, i complessi meccanismi dei rapporti tra i poteri dello Stato. Ci troviamo di fronte a un problema politico, prima che tecnico-giuridico: qui nascono soprattutto le gravi difficoltà. Il punto di partenza del delicato capitolo può essere rappresentato dalla figura del p. m., il quale esercita «obbligatoriamente» l'azione penale. «La sua è una posizione un po' anfibia» ci dice l'ex ministro di Grazia e Giustizia, on Oronzo Reale. E sul fatto che il p. m. abbia una strana collocazione e presenti elementi contraddittori, parecchi sono concordi. Sta a mezza strada tra il commissario di polizia (ma è privo di uomini e di mezzi) e il giudice, del quale ha riconosciute tutte le garanzie di indipendenza e di autonomia previste dalla Costituzione. Ne deriva un carattere fondamentalmente ibrido, che finisce, secondo alcuni, con il riflettersi sulla funzionalità dell'amministrazione della giustizia. Come si è giunti a questa situazione? Ascoltiamo il prof. Barile, docente di diritto costituzionale. Egli ricorda che all'Assemblea costituente si formarono due correnti, una favorevole ad assoggettare il p. m. all'esecutivo, l'altra propensa a considerarlo giudice. «Prevalse, ricorda Barile, la seconda tesi e subito si pose il problema di dare al "p. m.-magistrato" poteri c'i polizia per permettergli di svolgere con efficacia le indagini, comprese quelle preliminari. Si pensò allora di far dipendere dal p. m. la polizia giudiziaria». Ma alla «dipendenza» piena non si è mai arrivati. Si sono adottate, ricorda II professor Barile, soluzioni di compromesso: la polizia giudiziaria dipende (peraltro relativamente) dal p.m. per quanto riguarda le funzioni, ma dal punto di vista gerarchico i suoi componenti continuano ad essere legati ai corpi di appartenenza sottoposti ai ministeri dell'Interno, della Difesa e delle Finanze. La polizia giudiziaria in sostanza è obbligata a ubbidire a due padroni, potere esecutivo e giudiziario, con la possibilità (a volte non solo teorica), che sorgano quelli che il dott. De Matteo, procuratore della Repubblica a Roma, chiama «conflitti di oneri». In caso d'ordini contraddittori (e non è detto che il contrasto debba essere, necessariamente, doloso) a chi ubbidisce la polizia giudiziaria? E tutto ciò non nuoce alla speditezza delle inchieste? Ricapitoliamo. Abbiamo In Italia un p. m. a mezza via tra il poliziotto e il giudice; i compiti del poliziotto non può svolgerli con l'indispensabile efficienza poiché non ha a diretta disposizione nuclei di polizia giudiziaria; gli uomini delta polizia giudiziaria, a loro volta, sono soggetti a due autorità, che non si muovono necessariamente in sintonia. Una situazione intricata. «Un problema, ci dice il prof. Barile, apparso sinora insolubile ». Non ci sono soltanto ostacoli d'ordine tecnico. Ilnucleo della questione, come abbiamo accennato, è politico e riguarda soprattutto i rapporti tra il potere esecutivo e quello giudiziario, che si osservano talora con una certa diffidenza. I magistrati, com'è del resto logico, vogliono essere gelosi custodi della loro indipendenza e autonomia. Ricordano: «Noi siamo soggetti soltanto alla legge». I dissidi sorgono semmai quando si discute sul modo di strutturare la magistratura al suo interno e sul significato di soggezione alla legge. Sovrani assoluti C'è però chi non manca di osservare (con un certo fondamento) che esiste un'incongruenza dell'istituto della magistratura nell'ambito dei poteri dello Stato: non è prevista la sua responsabilità politica. Ci dice Von. Dell'Andro, sottosegretario alla Giustizia, democristiano: « Il magistrato può essere dichiarato responsabile per dolo o colpa grave, può essere sottoposto a procedimenti disciplinari su iniziativa del ministro di Grazia e Giustizia, ma non risponde di fronte al Parlamento dell'amministrazione dell'attività giudiziaria. Ne risponde soltanto il ministro, ma sulla base delle informazioni che gli dà il magistrato». Il problema dell'irresponsabilità è avvertito soprattutto per quel particolare tipo di organo della magistratura che è il p. m. Ci dice l'ex ministro della Giustizia Zagari, socialista: «Come politici ci troviamo di fronte a una situazione diffìcile. Chiediamo informazioni e i capi delle Procure forniscono quelle che credono o forse quelle di cui sono effettivamente in possesso, ma senza che il ministro di Grazia e Giustizia possa verificarle. Il punto è che i capì del p. m. da noi sono sovrani assoluti. Non c'è dubbio, occorre un coordinamento tra i due poteri ». La accusa di essere «sovrani assoluti» è naturalmente respinta dagli interessati i quali ricordano che la loro «soggezione alla legge è soggezione alla sovranità popolare». Sulla necessità del coordinamento Invece tutti sono d'accordo. Il problema è come attuarlo. Nel 1975, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, l'allora procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Colli, fece una proposta di questo tipo: «Si può prevedere che il collegamento si stabilisca esclusivamente tra il ministro di Grazia e Giustizia e il procuratore generale della Cassazione e che questi ne faccia annuale relazione scritta alle Camere». E' una proposta che ad esemplo il prof. Barile giudica positiva, quanto meno come primo passo per risolvere il problema. Essa però ha suscitato le perplessità dì altri esperti: quel tipo di coordinamento, dicono, sarebbe l'anticamera dell'assoggettamento del p. 7n. all'esecutivo (il che per la verità è escluso in modo categorico da Colli). Si è avanzata allora una controproposta: al collegamento pensi il Consiglio superiore della Magistratura, composto com'è di membri togati e laici. Ma anch'essa ha urtato contro obiezioni. Riassumendo: da un lato la magistratura teme Indebite interferenze, dall'altro c'è chi non vede di buon occhio una magistratura irresponsabile politicamente e teme, a sua volta, possibili «straripamenti» della stessa, favoriti da innegabili «vuoti» del potere legislativo ed esecutivo. Insomma, come all'inizio degli Anni 70, aleggia il fantasma di una «repubblica dei magistrati», di un potere « granducale » dei capi delle procure. C'è proprio da meravigliarsi a questo punto che lo specifico problema della disponibilità diretta della polizia giudiziaria da parte della magistratura non sia stato ancora risolto? Il consigliere Berla d'Argentine è esplicito: «Molti politici dicono che sin quando il p. m. non accetterà la responsabilizzazione, è pericoloso dargli un corpo di polizia. Potrebbe fare quello che vuole, creare uno Stato nello Stato. Non è soltanto un discorso che viene da destra, anche l socialisti hanno espresso perplessità». E aggiunge: «Il nodo della responsabilità deve essere sciolto in qualche modo». E' chiaro che se fosse stata realizzata l'ipotesi di una dipendenza del p. m. dall'esecutivo parecchi problemi non si sarebbero posti, ma ciò avrebbe aperto la porta ad altri pericoli e poi i magistrati (anche se con motivazioni diverse) fanno fronte comune contro quella soluzione. Quale destino allora per il p. m.? Ascoltiamo Von. Reale: « Ho detto che il p. m. ha una posizione ibrida, anfibia. Quando abbiamo fatto la legge-delega per la riforma del codice di procedura penale, si è messo in evidenza che il p. m. doveva essere portato alla sua posizione di parte pubblica, il che non significa, come dicono, un declassamento. Parte pubblica vuol dire sostenere l'accusa come rappresentante della collettività in posizione di perfetta parità con la difesa. Al p. m. potranno essere concesse tutte le garanzie di autonomia e di indipendenza, ma egli non dovrebbe più essere considerato giudice. Sono due cose diverse, bisogna uscire dall'equivoco. Chiarito questo, si può affrontare la questione del vertice interno o esterno del p. m.». Accusa e difesa Ci dice Dell'Andro: «Il problema è come porre accanto a chi esercita la funzione giurisdizionale quest'organo di accusa. La legge-delega parla di perfetta parità con la difesa. Bisogna strutturare II p. m. seguendo questa traccia e i binari della Costituzione. Non è facile, mi creda, anche perché rimane sempre in sospeso l'interrogativo: "A chi tisponde politicamente l'organo d'accusa?". Non c'è dubbio: il problema assomiglia a quello della quadratura del circolo. Nel tentativo di risolverlo gli esperti elaborano formule, ricorrono a alchimie giurìdiche, ma i risultati che ottengono sono rimessi costantemente in discussione in un processo dialettico destinato a durare ». Intanto suscita critiche anche l'organizzazione interna del pubblico ministero. I capi (procuratori generali e procuratori della Repubblica) sono contestati: segno dei tempi. E' la «rivolta dei "sostituti"» che chiedono maggiore indipendenza e autonomia, vogliono garanzie contro il potere di avocazione dei processi riconosciuto dalla legge ai loro superiori gerarchici (i quali effettivamente l'hanno esercitato a volte con spregiudicatezza), propongono criteri automatici di assegnazione delle cause. Ma anche qui sorgono parecchi problemi. E il coordinamento? E l'uniformità nell'esercizio dell'azione penale? C'è anche chi con una punta di cattiveria sì domanda: «Eliminati i granduchi, avremo i signorotti?». Clemente Granata

Persone citate: Barile, Colli, De Matteo, Dell'andro, Giovanni Colli, Oronzo Reale, Zagari

Luoghi citati: Italia, Roma