Grande scrittore di figure

Grande scrittore di figure SAUL STEINBERG CONSACRATO DA UNA MOSTRA A PARIGI Grande scrittore di figure Gli hanno reso onore Mirò e Van Velde - Nato in Romania, studiò a Milano e raggiunse il successo in America - Il disegnatore ha creato un suo linguaggio quasi verbale, riproducibile in infinite copie come se fosse un romanzo o una poesia E' stata inaugurata alla Galleria Maeght di Parigi una grande personale, attuale e retrospettiva, di un piccolo numero tra il numero smisurato dei disegni di Saul Steinberg. Nel tardo pomeriggio, il vernissage, e poi il dìner-dansant su e giù lungo la Senna col Bretagne hanno onorato uno dei massimi artisti viventi. I locali della Maeght (senza finestre) e il battello Bretagne (con i vetri assurdamente chiusi) erano gremiti fino alla asfissia imminente: pericolo grave! soprattutto per i due ultraottantenni santoni, lo spagnolo Juan Mirò e l'olandese Bram van Velde, che con la loro prestigiosa presenza conferivano a Steinberg, anche se Steinberg ormai non ne ha nessun bisogno, il crisma ufficiale di una suprema dignità pittorica. Ma è necessario insistervi perché, specialmente da noi, c'è ancora qualcuno che definisce Steinberg « un caricaturista ». Nato in Romania nel 1914, Saul venne a studiare in Italia e si laureò in architettura alla Università di Milano nel 1940. L'anno seguente, con la guerra, emigrò negli Stati Uniti: collaborò al Newyorker e ottenne subito un grandissimo successo e senz'altro la cittadinanza americana. « L'ultimo della bua generazione a arrivare a New York, Steinberg fu il primo a diventare famoso » dice Harold Rosenberg. E' probabile che io abbia conosciuto Steinberg a Milano nella seconda metà degli Anni Trenta: collaborava al Marc'Aurelio ed era amico di tanti miei amici, come Longanesi, Zavattini, Steno, Fellini, Aldo Buzzi. Ma, nel mio ricordo, la prima volta che lo vidi fu a Napoli poco dopo la liberazione, nell'inverno 1943-44. Era più magro di oggi, snello e elegante nella divisa di ufficiale della Marina Americana: biondo, occhiali d'oro, perennemente sorridente: il kaki chiaro e i fregi neri del berretto e della giubba, perfino i pantaloni stiratissimi, tutto lo separava da noi, poveri profughi dal Nord, stracciati e affamati: noi lo ammiravamo incantati come se intorno a lui vedessimo una di quelle mandorle alonate che, in certe pitture del Duecento, racchiudevano le creature dell'Empireo. Ero appunto insieme a Steno e a Longanesi. Vivevamo ormai, malgrado le nostre miserabili condizioni, nell'ebbrezza e nella certezza della vittoria alleata, e nella speranza di un nuovo mondo. Ma l'immagine più vittoriosa che, dopo tanti anni, mi rimane nella memoria, non è quella dei carri armati e delle truppe marcinnti, munifiche, osannate dalla folla al loro ingresso nelle città, e neppure quella delle argentee fortezze volanti che attraversavano il cielo sfavillando al sole: l'immagine più vittoriosa di tutte è lui, il biondo Re Saul, col suo fulgido sorriso giovanile. Certo, a quell'epoca, in quel momento, avevo pensato che si trattasse di una coincidenza: Steinberg, cittadino americano e ufficiale della U.S. Navy, torna in Italia dove ha studiato, lavorato e sofferto prima di raggiungere la fama e, ciò che più conta, una sicura coscienza del proprio valore: torna con l'esercito trionfante della sua nuova patria e ritrova i vecchi amici! Ma oggi, oggi so che quel suo sorriso esprimeva principalmente, se non esclusivamente, la gioia umana di un artista vittorioso: e che la mandorla in cui vedevamo Saul era tracciata invisibilmente da lui stesso, proprio come le spirali e i cerchi visibilissimi in cui ravvolge tante figure emblematiche di se stesso pittore con il pennello o con la penna in mano. Lo rividi poi qualche volta in Italia; e a New York, nel suo studio a Union Square qualche anno fa; e ancora adesso, il mese scorso. Era in una nuova casa, vicino al Central Park. Ci aveva invitato a cena, mia moglie e me. Arrivammo con un po' di anticipo e cominciammo a discorrere di tutto, come sempre accade con lui, senza esitare nella ricerca di argomenti. Parlai di certi italoamericani che avevo ritrovato, tali e quali a cinquant'anni fa, cristallizzati nell'idea di quella Italia che i loro padri o i loro nonni avevano abbandonato prima del fascismo o durante il fascismo. Spiegai a Saul « la legge » del mio vecchio maestro di glottologia Matteo Bartoli: nel Quebec è ancora vivo il francese del secolo XVII: per affermare la propria identità in mezzo ad altre comunità di immigrati, le isole e le estremità conservano mentre il centro, la madrepatria, innova E Saul, pronto: « Ecco anche perché i nostri piedi, che sono la parte più lontana di noi, cambiano meno di tutto il resto: conservano: i piedi sono i contadini del nostro corpo ». Mi parve di cogliere, in questa sua fulminea immagine, il meccanismo profondo e segreto della sua arte, l'immediata visualizzazione grafica di un'idea che parte astratta. Uomo di idee Più tardi, quando venne l'ora di andare a cena e Steinberg disse di aver fissato un tavolo in un ristorante non lontano, istintivamente confessai il fastidio e il disagio che mi davano i ristoranti, qualunque ristorante, dovunque: « Da un mese, da quando siamo in America, andiamo a! ristorante », avevo visto, di là, una bella cucina, « perché non ci dai qualche cosa qui, due uova, un po' di prosciutto, scatolette, quello che hai... Così possiamo parlare tranquilli, senza la noia degli enormi menù che non si riesce nemmeno a leggere per via del buio obbligatorio in tutti i ristoranti, e senza il fastidio dei camerieri... ». Gentile, scusandosi della modesta mensa che avrebbe potuto imbandire, disse di sì, e che era d'accordo con me: « I ristoranti, e specialmente quelli americani, danno fastidio e disagio perché noi, avendo accettato il ruolo di clienti, diventiamo un po' camerieri anche no; così come i camerieri, a loro volta, diventano un po' clienti: per ragioni di complicità ». E io vedevo, sì, mentre lui parlava, frotte di camerieri in frac trasformantisi in frotte di clienti seduti a tavola, e le code delle marsine trasformantisi negli schienali delle sedie, cioè un disegno di Saul che Saul forse non ha mai fatto, ma, allo stesso tempo, ero incantato dalla sua voce, musicale e suadente. Parla italiano benissimo, né più né meno come un italiano, da sempre. E io mi dicevo che, finalmente, mi trovavo davanti a un pittore che, diversissimo in questo da qualunque altro pittore anche famoso, anche grande artista, da me conosciuto, aveva delie idee, insomma parlava senza dire cose banali o bestialità. Avevo fatto l'identica esperienza anche con i registi del cinema. Mi ero chiesto perché i registi, come i pittori, salvo rarissime eccezioni (una è Fellini), non brillano mai di intelligenza nei loro discorsi, e mi ero risposto che mentre il linguaggio parlato a voce dai letterati è, in sostanza, lo stesso che i letterati usano nei loro scritti, il linguaggio naturale dei pittori e dei registi è, invece, quello dei pennelli, dei colori, delle luci, delle ombre, degli spazi, delle figure, della materia, della pellicola. Steinberg, pur essendo pittore, forse apparteneva profondamente a un'altra razza. Molti critici, dal 1942 in poi, hanno scritto su Steinberg. Sono andato a rivedere i saggi di Michel Butor (Le Masque), di Harold Rosenberg (The Art World), di John Canaday (The Inspector), e di Italo Calvino (La penna in prima persona: prefazione al catalogo dell'attuale mostra di Parigi). Ho ripreso a sfogliare, con incessante piacere, rapimento, divertimento, talvolta addirittura con lunghe solitarie risate, talaltra con lampi rivelatori di verità finora ignote o appena intraviste, i sette volumi dei disegni di Steinberg: Ali in line, 1945; The art of living, 1949; The passport, 1955; The labyrinth, 1960; The new world, 1965; Le masque, 1966; The inspector, 1973. E, sfogliando così ancora una volta questi volumi, sono rimasto sgomento dalla sterminata serie di racconti, poemetti, epigrammi, illuminazioni, profezie, satire, ricordi, e infinite altre forme letterarie o quasi nonforme, ma sempre visive, che questa arte fisicamente visiva suggerisce instaurando di volta in volta un dialogo con Io spettatore-lettore, obbligandolo a interpretare, coinvolgendolo. Eguale sgomento ho provato cercando di integrare l'una con la altra le interpretazioni che Butor, Rosenberg, Canaday e Calvino ne danno, ciascuna estremamente intelligente e ciascuna certamente valida ma tutte diverse l'una dall'altra: cercando di interpretarle, di trovarvi un comune denominatore, di organizzarle in un'unica costruzione critica, e illudendomi almeno in principio che, se fossi riuscito in questa impresa, mi sarei forse avvicinato alla verità su Steinberg. Butor dice della parodia dell'angoscia. Rosenberg dice che Steinberg è il precursore, venti anni prima, della pop-art. Non sbaglia certamente il Canaday nel riconoscere Paul Klee come principale se non unico maestro di Steinberg. E nemmeno sbaglia facendo un solo altro nome, Daumier, ma riferendolo, come è ovvio, non allo stile pittorico-grafico, bensì alla funzione sociale, al rapporto tra l'artista e la sua epoca: « Daumier aveva una certezza, credeva fermamente che il popolo fosse buono... 11 mondo ideale di Daumier era riassunto tra le pareti di una stanza piccola e comoda, dove il suo popolo si rifugiava nella felicità domestica... Steinberg, invece, ha soltanto la certezza che oggi tutti quanti siamo mentalmente confusi, sconcertati, disperati o, nella migliore delle ipotesi, paralizzati in una specie di euforia totale e scervellata da un universo che è diventato qualcosa di troppo per noi... Un disegno di Steinberg, è impossibile descriverlo: ma serve anche a provare che lo sterminato mondo degli individui di Steinberg ha tutte le ragioni per essere mentalmente confuso... Steinberg non offre soluzioni al nostro problema e non rivela nessun ordine nella struttura universale, ma senza tregua ce ne mostra frammenti e pezzettini: e noi, osservandoli, ci diciamo: sì, è così che vanno le cose! ». L'io disegnato Calvino costruisce una delle sue meravigliose pagode di riferimenti e insinuazioni. Comincia con una penetrante citazione di Guido Cavalcanti (Noi siam le tristi penne isbigottite I le cesoìuzze e '/ coltellin dolente...); prosegue con Michelangelo (Dialoghi romani d'un artista portoghese suo contemporaneo, Francisco de Holanda) e conclude con Galileo (Dialogo dei massimi sistemi). Calvino interpreta Steinberg come « l'universo del disegno che si disegna », come « l'io disegnato che finisce per disegnare l'io disegnante » e, analizzando i procedimenti secondo cui avvengono tali identificazioni, tenta una dopo l'altra varie chiavi: « Il mondo disegnato ha una sua prepotenza, invade il tavolo, cattura ciò che gli è estraneo, unifica tutte le linee alla sua linea, dilaga dal foglio... No, è il mondo esterno che entra a far parte del foglio: In penna la mano l'artista il tavolo il gatto, tutto è risucchiato dal disegno come da un vortice, tutte le carte sul tavolo, lettere buste cartoline francobolli timbri, dollari con la piramide tronca coll'occhio sopra e il motto latino... No, è la sostanza del segno grafico che si rivela la vera sostanza del mondo, lo svolazzo o arabesco o filo di scrittura fitta fitta febbrile nevrotica che si sostituisce a ogni altro mondo possibile... Questa consustanzialità dell'universo disegnato e dell'io è però solo relativa, perché all'interno di esso si aprono tanti universi paralleli incompatibili tra loro: in una dimensione si muovono figure lineari e filiformi, in un'altra figure minuziosamente ornate; un mondo senza spessore si distacca da un mondo tutto volume; un continente dove tutto è suggerito dai contorni e uno dove tutto è ombreggiatura sembrano non aver punti di contatto, e così gli universi ri moltiplicano per il numero degli strumenti e delle tecniche e degli stili che si possono usare per dar forma a figure e a segni ». Sta qui, mi pare, the heart of the matter, il nocciolo della questione. Come mai tutti proclamano grande artista e anche grande pittore questo disegnatore che adopera, sì, tutti gli stili? Calvino parla della linea. Ma questa linea è una soltanto nella sua materialità, e neppure: perché Steinberg disegna anche ombre, masse, volumi, massicce prospettive o addirittura usando pezzi di fotografie e qualche volta perfino collages di stagnola. La linea vagheggiata da Calvino sarebbe, dunque, un'astrazione, un'immagine. E tutti questi stili usati da Steinberg sarebbero, perciò, una mancanza di stile. Ma noi, al contrario, sappiamo che Steinberg ha uno stile: e che ce l'ha fortissimo, tremendamente efficace, preciso, personale. Come si risolve questa contraddizione? Credo di esserci arrivato per conto mio. Tuttavia, penso che mi abbia messo sulla buona strada, verso la fine del suo saggio, Harold Rosenberg: « Steinberg fino dal principio ha seguito senza riserve una via che lo separava per sempre dai santi feticci dell'arte moderna. Steinberg fu uno dei primi ad accorgersi che i settimanali a grande diffusione e i musei di arte contemporanea si sono ingaggiati in attività apparentale alla cultura di massa: e Steinberg aggirò la palude dell'artista-eroe-della-cultura, slanciandosi apertamente nell'arte destinata alla riproduzione. Nell'umile disegno satirico trovò un mezzo capace di trasformarsi in un alfabeto altrettanto docile di quello delle parole... Il potenziale intellettuale del disegno per settimanale consiste principalmente nel fatto che si tratta di un mezzo modesto ». Ecco, ho pensato di colpo a un mistero che da lunghi anni continua a inquietarmi. Anche se, dal punto di vista psicologico, il meccanismo liberatorio è Io stesso per tutte le arti, esiste una profonda differenza tra il pittore e lo scrittore. Mentre l'opera dello scrittore cinquant'anni dopo la sua morte assume un valore puramente spirituale, l'opera del pittore vale economicamente per se stessa e capita, anzi è normale quando si tratta di un grande pittore, capita che valga sempre di più. In altre parole, lo scrittore costruisce qualcosa che poco tempo dopo è privo di valore economico. Il pittore, tutto al contrario: il pittore e un mago che fabbrica con le sue mani oro, platino, diamanti, pietre preziose: bellezza e ricchezza insieme: segno di un potere doppio, diabolico! Ci deve dunque essere, tra la natura psicologica di uno scrittore e la natura psicologica del pittore, una profonda diversità. L'arte fatta di parole scritte non cambia di valore economico quando le parole sono stampate e, caso mai, lo acquista proprio in misura del numero delle copie, ciascuna praticamente di un valore minimo, che vanno sul mercato. Invece, l'arte fatta di colori figure disegni produce ciascuna volta un unicum in cui si concreta un suo massimo valore economico. Abbiamo, è vero, le acqueforti, le litografie, le serigrafie, ecc. ma il numero delle copie fhe si possono ottenere con questo tipo di diffusione è sempre limitatissimo. E quanto alle riproduzioni fotografiche di opere d'arte, il loro prezzo in realtà non esiste se si paragona a | quello degli originali. Quanto a Steinberg, non soltanto lui ha scelto col disegno riprodotto il più umile di tutti i mezzi pittorici, ma anche negli originali, sempre bellissimi e tutt'altro che privi di valore commerciale per i collezionisti, lui non ha mai cercato la preziosità della materia: i suoi colori sono rari e quando ci sono servono all'intelligibilità del soggetto e a niente altro, sono giusti e niente di più. Gli squisiti « sacchi » di Burri sono quanto di più lontano si possa pensare da Steinberg, il quale — non fosse che per questo stile che lui rifiuta — ha, dunque, uno stile, e non lo si può definire un eclettico. Non è, infatti, che egli disegni con tutti gli stili: è che usa tutti gli stili esattamente come uno scrittore che usa tutte le infinite parole o tutte le infinite frasi già usate da altri scrittori, e ciò nondimeno ha uno stile perché lo stile è altrove: è nella nuova combinazione di tutti cotesti elementi pittorici, grafici, verbali inizialmente disprezzati e quasi intercambiabili: è nel ritmo, nell'aria, nel significato: uno stile tutto trasposto in segni riproducibili all'infinito, né più né meno di un qualunque stile letterario. Steinberg potrebbe perfino usare, se già non lo ha fatto, i sacchi di Burri. Ma la bellezza dell'opera che ne risulterà non sarà mai consustanziale ai sacchi. Adesso capisco perché Steinberg non parla come un pittore. Ma naturalmente! Scrittore-pittore Naturalmente, perché Steinberg è un letterato che pensa come un letterato ma con certi segni al posto di certe parole e, molte volte, anche insieme a certe parole: e al di là di questi segni e di queste parole c'è sempre un'ispirazione non soltanto irrazionale ma anche razionale e ragionata, appunto come nei letterati. Il senso ultimo dell'idea di Calvino è forse questo: un disegno che, a forza di disegnarsi, si libera di se stesso. Insomma, Saul è uno scrittore-pittore che ha creato un suo linguaggio quasi verbale, riproducibile in infinite copie tale e quale a un romanzo o una poesia. E se forse i suoi originali si vendono più cari dei manoscritti di Montale, ciò accade solo perché un disegno bene incorniciato può sempre « risolvere la parete » in una casa capitalista. Ma lui, il Re Saul, non lo ha fatto apposta. Su questo ci si può giurare. Mario Soldati Due esemplari disegni di Saul Steinberg - Sotto: « Chi è stato? »