Fo scopre l'acqua calda di Carlo Casalegno

Fo scopre l'acqua calda Il nostro Stato di Carlo Casalegno Fo scopre l'acqua calda Dario Fo è stato promosso sul campo «storico selvaggio». La proclamazione è avvenuta la settimana scorsa, durante un dibattito alla Palazzina Liberty di Milano su un libro dello studioso «eretico» Jean Chesneaux, per volontà di nobili e di popolo: in teatro c'erano infatti intellettuali e operai, insegnanti e studenti. L'attore non ha ricevuto la corona, come il Petrarca in Campidoglio, ma una solenne consacrazione c'è stata. Mistero buffo viene indicato come un testo classico e il modello della nuova e vera storiografia, per due importanti ragioni: perché supera — finalmente! — «la separazione tra presente e passato, tra chi scrive la storia e chi la fa, tra politica e storia»; e perché, riparando una secolare ingiustizia, indica come protagonisti della storia non i principi ma le masse. Di questo primato, Fo si riconosce consapevole sema falsa modestia: prima di lui non s'era fatta la storia delle classi subalterne; le stesse tradizioni popolari avevano subito la confisca e la mistificazione del Potere. Che Dario Fo sia convinto di quel che dice di sé e della propria missione culturale, non sorprende né scandalizza. In tanti anni di milizia politica dentro e attraverso il teatro, ha confermato, insieme con un raro talento, un'indubbia buonafede; e gli si debbono perdonare certe affermazioni più ingenue che presuntuose, la patetica certezza di fare dell'alta cultura «impegnata». Può anche illudersi d'essere un pioniere, oltreché un rivoluzionario, quando proclama che il popolo non è soltanto lo specchio di tutte le virtù, ma anche la fonte della verità storica; forse pensa davvero} d'aver scoperto vie nuove dicendo che solo attraverso la tradizione popolare si può giungere all'origine dei fatti. E' tipico degli adolescenti ai primi studi esaltarsi nella certezza d'aver scoperto l'acqua calda. Sorprende invece, e preoccupa, che intellettuali professionisti esaltino il teatro di Fo come una rivelazione, una seconda scoperta delle rovine di Troia, e che si spingano più in là dell'attore nel processo contro la cultura accademica e gli storici di ieri e di oggi. Li si accusa infatti d'aver ignorato i legami tra passato e presente; d'aver rifiutato l'impegno politico, d'aver deformato la storia, usando il linguaggio delle classi dominanti; d'aver trascurato la creatività e il compito insostituibile delle masse, assenti dai libri anche se «le loro mani nei secoli hanno dato da mangiare a tutti» (secondo l'originale considerazione polemica ascoltata nell'intervento di Joyce Lussu). I casi sono due, per taluni intellettuali di sinistra: mentono di proposito per faziosità, nascondendo o alterando i fatti (com'è abitudine corrente nella cultura ufficiale sovietica); oppure non hanno mai letto o capito i libri importanti del passato. Par di sognare, ascoltando certi giudizi da parte di gente che ha pur fatto il liceo. Deplorano la secolare separazione tra storia e politica. Ma tutti i grandi storici hanno fatto politica studiando il passato: da Tucidide e Tacito a Voltaire e Federico Chabod, dai Padri della Chiesa ai maestri del marxismo. La Storia d'Europa di Benedetto Croce è il manifesto del liberalismo, la Storia della letteratura italiana del de Sanctis è un contributo primario al Risorgimento, la Storia d'I¬ talia di Cesare Balbo è la «magna coarta» della corrente neoguelfa. Hanno fatto politica Mommsen occupandosi dell'antica Roma, Michelet del Medioevo francese, Jemolo dei rapporti tra Stato e Chiesa; come avevano fatto politica Tito Livio mitizzando la Repubblica e Procopio rivelando i delitti di Giustiniano e Teodora. Questi campioni dello storicismo « sinistrese », convinti d'aver scoperto il popolo, condannano l'indifferenza della storiografia ufficiale per le classi subalterne. Forse non hanno mai sentito parlare, ad esempio, d'un certo Salvemini, che qualcosa ha scritto sui popolani di Firenze; non hanno mai visto in una biblioteca le centinaia di opere dedicate nell'ultimo secolo, magari con /'imprimatur di Oxford o Cambridge, alla vita delle masse negli ultimi tre millenni; non si sono accorti, tanto per citare un caso, che la Storia d'Italia Einaudi già risponde a molte loro domande. Essi ignorano (o fingono d'ignorare, ed è peggio) che la materia prima per le farse di Dario Fo è stata raccolta, un secolo fa, dal professor Alessandro d'Ancona, tipico rappresentante della cultura accademica, grandissimo esperto di teatro sacro e profano popolare; e che si deve la riscoperta o la salvezza di tante canzoni popolari a Costantino Nigra, ambasciatore di Sua Maestà. Ma la gemma più bella, che illumina la lunga requisitoria ascoltata nella Palazzina Liberty, è l'accusa agli storici d'aver raccontato la vita del popolo nel linguaggio delle classi dominanti. Questa denuncia ha fatto crollare tutte le nostre certezze. Non ci eravamo mai resi conto che Michele Amari avrebbe dovuto spiegarci in antico siciliano l'esistenza degli isolani sotto il dominio arabo, Giovanni Verga scrivere I Malavoglia nel dialetto di Aci Trezza. E gli storici marxisti imparino da Dario Fo: le lotte del lavoro dovranno esser raccontate, d'ora innanzi, nei dialetti della Padania o delle Murge: nel linguaggio delle Masse e non del Potere.

Luoghi citati: Cambridge, Europa, Firenze, Milano, Oxford, Roma, Voltaire