Il simbolo non è azione di Andrea Barbato

Il simbolo non è azione Nomi e Cognomi di Andrea Barbato Il simbolo non è azione Se io fossi un intellettuale, invece di partecipare alle cerimonie un po' patetiche e salottiere del premio Strega, tenterei di radunare tutte le energie politiche ed economiche per restituire al più presto all'Università di Roma quel cervello elettronico che un attentato ha sottratto al lavoro di ricerca. Se fossi un intellettuale, invece di estenuarmi in una polemica filologica sulla paura e sul coraggio, farei opera di protesta e di concreti propositi per riaprire la Biblioteca nazionale romana, così nuova e già così pericolante. Dove conserveremo il bel libro di Tomizza, sicuro vincitore nel Ninfeo di Valle Giulia, se l'unico archivio culturale della capitale ha i soffitti sfondati? Insomma, mi dedicherei alle azioni, ai fatti, anziché alle astrazioni. Cercherei ogni tanto di dare un corpo alle parole. Mi appassionerei alla difesa del «luogo di lavoro». Vorrei una legge per il cinema, anziché un dibattito sulla preminenza del piano-sequenza rispetto al montaggio ellittico. Cercherei in altre parole di capire i nessi tra il fare e il dire. Il cielo (e i lettori di questa rubrica] mi sono testimoni che non nutro alcuna tenerezza, neppure sociologica, per Radio Alice, per Lotta Continua, per i vari rami della cosiddetta Automonia, o peggio ancora per il Collettivo di via dei Voisci. In questo senso, parlo da una tribuna non sospettabile, per denunciare un episodio, o meglio per raccontarlo. Mi sembra che contenga tutti i nodi del rapporto fra il dire e. il fare, tutte le contraddizioni della giustizia, tutti gli ammonimenti a non perdere il senso dell'equità neppure dinanzi a chi ha idee estranee, e persino radicalmente avverse, alle nostre. Angelo Pasquini, trentenne romano, fu arrestato in maggio, rinchiuso a Rebibbia, poi nel carcere di Bologna. Il giudice istruttore bolognese gli addebita ac- cwse gravi: organizzazione di associazioni sovversive, istigazione al reato attraverso Radio Alice, compilazione di fogli insurrezionali. Appelli, richieste di libertà provvisoria, scioperi della fame non hanno finora mutato l'atteggiamento del magistrato. Pasquini resta in carcere, con altri imputati. Io non ho elementi concreti, né alcun mandato, per emettere una sentenza. Anche i difensori, come il giudice, hanno argomenti validi, per sostenere la tesi che Pasquini non partecipò ad alcun complotto, in quei giorni di marzo a Bologna. Quel che mi colpisce è la qualità dei reati attribuiti al giovane insegnante romano: discorsi in un'assemblea, testi su riviste, articoli manoscritti o ciclostilati. So bene che uno scritto può contenere un reato anche gravissimo, che un discorso può avere rilevanza penale. Ma ho cercato di leggere e di capire quello che Pasquini ha detto e scritto. Non faccio il magistrato, lascio la parola ad altri: ma io non vi ho trovato pericolosità, semmai verbalismo infantile, confusione utopistica. Pasquini si occupa di problemi del¬ l'informazione, di linguistica, del rapporto fra scrittura e potere. Non condividerei una sillaba di ciò che pensa, ma mi sembra che il carcere sia una recensione un po' brusca. Ciò che rende singolare il caso di Pasquini (e del suo «complice» Franco Berardi) è che la loro logica è la medesima del giudice che lì ha arrestati: cioè, essi credono che le parole siano già «rivoluzione», che la linguistica sia un'arma, che il simbolo sia azione. Che vi credano loro, è comprensibile, ma che la legge li prenda sul serio, lo è di meno. Nelle riviste «underground», come Zut e A/Traverso, si leggono messaggi contro il Potere, testi e poesie del dissenso più estremo. In tal modo, gli autori credono di lavorare per l'insurrezione: si sbagliano, e il magistrato paradossalmente dà loro ragione. In una sua lettera a Lotta Continua, Pasquini racconta se stesso, dice di scrivere sui muri, dice che le radio e le riviste piacciono anche a professori e sociologi, dice che la scrittura è porcheria se si esprime nei «canali dominanti». La sua ribellione è verbale, ma il carcere è concreto. Forse il magistrato crede che la «poesia» sia sovversiva? Anche la cattiva poesia? Leggo i testi di Pasquini su Linus, o la sua storia dell'operaio scomparso su Zut. I giudici avrebbero arrestato i Dada o i Futuristi? E' così forte il potere del linguaggio? Non so. Forse ha ragione Asor Rosa, quando dice che sono le loro idee politiche che sono confuse e sbagliate. O ha ragione Eco quando dice che Majakovskij non era in grado di fare la rivoluzione da solo, senza Lenin. Mi stupisce che un magistrato, giudice istruttore, confonda i simboli con la realtà, il dire con il fare. E' vero che i comportamenti sono cultura, ma non sempre la cultura è un eomportamento. Finché non è un gesto concreto, va giudicata come tale, magari per aborrirla.

Luoghi citati: Bologna, Nomi