Toro Seduto alla riscossa di Sandro Casazza

Toro Seduto alla riscossa I pellirosse nel cinema muto americano Toro Seduto alla riscossa Una rassegna di film dal 1898 al 1915 al Cineclub Brera di Milano - Di moda gli indiani, dai Cheyenne ai "metropolitani" Milano, 14 giugno. Gli indiani vanno di moda: dai «metropolitani» ai Cheyenne. Mentre alcune frange della nostra contestazione giovanile hanno assunto per le manifestazioni di piazza i tatuaggi dei pellerossa lanciando slogans pittoreschi e fantasiosi contro il potere emarginante e colonizzatore, si registra un vivace rifiorire di studi scientifici sulla cultura degli indiani americani, accompagnato oltreoceano dal rinascere di un forte orgoglio nazionale e di un nuovo senso di identità tra i superstiti delle antiche tribù di «nativi». Perché nella lotta politica del nostro Paese è stata evocata l'immagine del pellerossa? Come mai nella cultura europea questo mito è così profondamente radicato da diventare un segno o un simbolo di riferimento immediato, un elemento di confronto con la nostra realtà sociale? Il cinema è stato il primo e grande veicolo per la diffusione, al positivo o al negativo, dell'epopea sugli indiani d'America. Cheyenne, Sioux, Apache, Cavallo Pazzo, Toro Seduto, Alce Nero, Little Big Horn, Wounded Knee tomawaks, squaw, bisonti, totem, variopinti piumaggi e pitture facciali, sono i nomi, gli elementi ricorrenti e codificati di un vasto filone cinematografico genericamente definito «western». Ma il viaggio percorso, in mezzo secolo, dai film di Tom Mix all'Uomo chiamato cavallo, è costato agli indigeni statunitensi cocenti umiliazioni, calunnie e falsificazioni storiche. Considerati selvaggi urlanti, nudi e colorati, idealmente nemici da sterminare, definiti «musi rossi» così come qualche anno più tardi il cinema americano si abituerà a chiamare i giapponesi «musi gialli», i pellerossa entrano nei film come animali da cacciare senza alcuno spessore umano, sociale e tanto meno psicologico. Sono sporchi («sento il puzzo di indiano, lontano un miglio», dicono i migliori scout del vecchio western), feroci, assassini e infidi, anche se nemmeno lo sceneggiatore più reazionario è mai riuscito a togliere l'appellativo di «lingua biforcuta» ai bianchi. Quando e come è nato questo mito razzista e negativo che ci aveva insegnato, da ragazzi, a gridare «arrivano i nostri» quando i «soldati blu» caricavano e massacravano i poveri indigeni che stavano difendendo la loro terra? Un tentativo di risposta a questa domanda viene offerto, al Cine Club Brera di Milano, da una interessante rassegna intitolata «Gli indiani nel cinema muto americano dal 1898 al 1915», che si concluderà domani sera. I primi brevi filmati in programma, prodotti dalla Edison e dalla Biogra ph, sono fra i più interessanti dell'intero ciclo. Sono passati però più di vent'anni dall'ultimo sussulto di orgoglio nazionale, di po tenza guerriera, con la vittoria di Cavallo Pazzo contro i soldati di Custer (1876), e i pellerossa appaiono già umiliati al rango di passatempo per turisti. La cinepresa riprende i Walpapi che si esibiscono in danze rituali con i serpenti mentre il pubblico bianco intorno applaude e osserva con interessato timore le evoluzioni dei velenosi rettili. E' il 1901. Di tre anni pri ma una folcloristica «Parata del selvaggio West di Buffalo Bill» : gli indiani sfilano a cavallo nella grande città inseguiti da frotte di ragazzini curiosi e festanti. Sono brani documentari, come le imma gini riprese nell'Isituto Sherman per Indiani a Riverside; piume e tatuaggi sono stati abbandonati in cambio di giacche camicie e cravatte. I maschi imparano a lavorare di lima e di martello, mentre le donne cuciono e giocano a pallacanestro. E' un'immagine di idilliaco inserimento sociale, clamorosamente smentita dai primi filmetti a soggetto dove i «selvaggi» infieriscono prima contro una mite famiglia di pionieri poi contro il povero Kit Carson. In entrambi i ca¬ si subiranno micidiali punizioni, ma il fatto più interessante è il cliché tipologico con cui vengono rappresentati. Si muovono sempre con gesti scomposti, saltellano come scimmiette, mostrano minacciosamente i coltelli, strisciano a terra come cani per annusare le tracce del nemico, non hanno quasi mai andatura eretta, il busto è piegato in avanti quasi avessero da poco lasciato la vita sugli alberi. Il cinema cominciava a creare gli stereotipi dell'in- | ! | I i I Falco Bianco, un capo Cheyenne fotografato nel 1879 diano selvatico, incivile e disumano. Passeranno molti anni prima che la formula | venga modificata. Gli episodi di un'illustrazione meno falsa e convenzionale non mancano. Dal Massacro di Fort Apache (1947) di Ford comincia I forse la lenta riabilitazione | della cultura e della civiltà I pellerossa. Il cammino prosegue con L'ultimo Apache e con L'amante indiana di Del ■ mer Daves (1950). Nell'Uomo i chiamato cavallo (1969) si compie addirittura una rivoI luzione: i nativi americani | vengono descritti con sguardo etnografico, in una comunità sociale unita, tollerante, ! organizzata, religiosa, incline | ad una alta spiritualità. E' il momento dell'indiano I «eroe». Il mito tutto negativo i si capovolge e diventa tutto I positivo, in un'operazione altrettanto razzistica e mistificante: un prodotto come Soldato blu, con la sua velleità anticolonialista, è un esempio eloquente di quest'ultimo atteggiamento paternalistico del cinema yankee. Il progressivo diffondersi di American native studies, che sta interessando oggi gli Stati Uniti, porterà forse alla nascita di un vero cinema indiano che offra finalmente anche il punto di vista degli sconfitti nella guerra di colonizzazione del West. Chissà forse i giovani della prossima generazione grideranno «arrivano i nostri» vedendo apparire all'orizzonte un manipolo di pellerossa piumati, a cavallo. Sandro Casazza

Luoghi citati: America, Cheyenne, Milano, Riverside, Stati Uniti