I due Rosselli di A. Galante Garrone

I due Rosselli TRUCIDATI QUARANTANNI FA I due Rosselli Quarant'anni fa, nella foresta di Bagnoles-sur-l'Orne, furono trucidati a colpi di pugnale, da prezzolati sicari, Carlo e Nello Rosselli. Dietro i sicari, c'erano gli uomini dei servizi segreti fascisti; dietro costoro, i vertici stessi del regime. Il fascismo sapeva scegliere bene i nemici da stroncare. Riconosceva, « come le querce più gagliarde che il taglialegna segna di rosso prima di abbattere, gli uomini migliori che era indispensabile assassinare ad uno ad uno»; sono parole di Calamandrei. Alcuni dei mandanti, processati e condannati nel 1945, furono poi vergognosamente assolti nel 1949 (e in questa colpevole indulgenza, o connivenza, è forse da scorgere la prima e più lontana matrice di tanta violenza che oggi imperversa). Fin dai primissimi anni, Carlo e Nello respirarono un'aura risorgimentale. Nella casa pisana di un Rosselli, loro prozio paterno, era morto Mazzini. Due ascendenti della madre avevano combattuto alla difesa di Venezia nel 1849. Soprattutto l'impronta mazziniana rimase indelebile in loro. Ce lo confermano i loro scritti, la loro stessa azione. Ma furono le dirette esperienze di vita a segnarne il destino. Il loro fratello maggiore, Aldo, era morto nella grande guerra. Carlo fece appena in tempo a parteciparvi. Ma quei pochi mesi bastarono a fargli scoprire le semplici virtù della povera gente, il dovere della solidarietà. Fu la prima radice del suo socialismo umanitario. Decisivo l'incontro dei fratelli con Salvemini. Nello fu il primo dei due ad avvicinarlo. Ricorderà poi il maestro pugliese: « Nella primavera del 1920 — una di quelle giornate primaverili fiorentine, quando l'aria è trasparente come cristallo e quasi le foglie degli ulivi sulle alture di Fiesole si distinguono da Firenze — venne a cercarmi a casa un sottotenente di artiglieria. Aveva ancora qualcosa dell'adolescente nella sua carnagione rosea e nei suoi occhi azzurri». Nello si accingeva a studiare, sotto la guida del maestro, temi risorgimentali; e Carlo aveva avviato solidi studi economici. Ai due si aggiunse un'altra bellissima figura di giovane, Ernesto Rossi. « Quei tre giovani — dirà il vecchio Salvemini, nella commemorazione dei Rosselli a Palazzo Vecchio, nel 1951 — furono la mia nuova gioventù... In questi venticinque anni mi sono stati maestri di vita ». Da questo sodalizio nacque il primo, rischioso impegno di lotta antifascista: dal circolo di cultura al foglio clandestino Non mollare (e fu proprio Nello a suggerire il titolo, così mazziniano e insieme così toscanamente spigliato). Poi, i due fratelli presero vie diverse. Assai dissimili i loro temperamenti. Carlo era irruente, di una vitalità espansiva, gioiosa, divorato da una frenetica febbre d'azione; Nello più meditativo, più incline e più assorto nelle ricerche e riflessioni dello storico. Diversi anche gli orientamenti politici. Carlo mirò sempre a un socialismo rinnovato, che partendo da alcuni motivi salveminiani cercò via via di aprirsi ad alcune correnti, in parte ancora incerte, del socialismo europeo. Nello, già seguace di Giovanni Amendola, rimase sempre — come in questi giorni giustamente si è precisato — un democratico liberale. Ma comune era l'ispirazione di fondo: e bastano due nomi a caratterizzarla, quelli di Mazzini e di Salvemini. Non è il caso di raccontare qui, ancora una volta, le memorabili iniziative e imprese di Carlo Rosselli (nelle quali fu anche profuso il cospicuo patrimonio familiare) : dalla fondazione, con Pietro Nenni, del periodico Quarto Stato, quando ormai in Italia agonizzava la libertà di stampa; dall'espatrio di Filippo Turati e dal conseguente processo di Savona, che si risolse in una quasi assoluzione, e, grazie alla dignità coraggiosa dei giudici, in un'estrema manifestazione pubblica di antifascismo (e rivolto al tribunale, disse Carlo: « Cinquantanni or sono lo zio di mio padre ricevette in casa sua Mazzini morente. Potevo io, cinquantanni dopo, fare altro che assistere Filippo Turati nelle sue difficoltà? »); dal confino a Lipari — « una grande cella senza muri, tutta cielo e mare » —, all'avventurosa fuga con Lussu, e alla fondazione di Giustizia e Libertà, il movimento che si propose con audacia e risolutezza di spostare l'emigrazione politica dal piano aventiniano su quello insurrezionale, rivoluzionario, e di su¬ scitate, come in effetti suscitò, impulsi generosi di lotta nella Penisola. Alla fine, l'atto che indusse i capi del fascismo a far sopprimere Carlo: l'intervento in Spagna. Fu tra i primi ad accorrere in Catalogna, e a combattere. « I profeti non sono più disarmati », diceva. Di qui lanciò il motto fatidico, che era un presagio della Resistenza: « Oggi in Spagna, domani in Italia ». Del resto l'avvento di Hitler aveva già conferito una dimensione europea alla battaglia antifascista. Carlo senti benissimo che la crisi decisiva si avvicinava. Fin dagli anni del confino, aveva condensato i suoi pensieri in un'opera, Socialismo liberale, che completò in Francia. Il senso ultimo di queste pagine è racchiuso in una lettera che il 15 ottobre 1935 scrisse a Salvemini, e che Leo Valiani ci ha fatto conoscere in questi giorni: una lettera nella quale (e si era in pieno stalinismo), il problema storico da affrontare era individuato nel conciliarsi del socialismo col rispetto della libertà e della dignità dell'uomo, con l'iniziativa economica, con la democrazia politica. «La rivoluzione russa portata in Occidente, con tutta l'eredità dell'Occidente. Questi sono compiti da offrirsi ad una generazione ». Ma più che la dottrina, per lui, contò lo slancio dell'azione, la lotta intransigente. Scriveva: «Un po' più di fede e un po' meno dì scienza». Senti sempre il socialismo non tanto come ideologia, quanto come spontaneo movimento di masse assetate di giustizia. Fin dal 1924, dopo aver assistito a un meeting di minatori del Galles, aveva scritto alla madre, commosso ed esaltato: « Oggi ho capito, ho visto quanto grande e stupendo sia l'ideale socialista ». Così molti anni dopo, in Spagna, lo avrebbe entusiasmato la « fraternità immensa » dei miliziani. A chi gli chiedeva un programma, rispondeva: «Dieci anni di lotta allo sbaraglio ». Era la traduzione in termini attivistici di un consiglio salveminiano. Di qui il suo prorompente ottimismo: « Sconfitti, non abbiamo lo stato d'animo dei vinti, non siamo dei rassegnati ». Non dobbiamo commettere l'ingiustizia storica di lasciare nell'ombra Nello, che non fu da meno di lui, e sostenne sempre la necessità che qualcuno restasse in Italia a dare esempio di « non mollare ». Ancora una volta, citiamo Salvemini: «Carlo fuori d'Italia squassava la fiaccola della lotta contro la dittatura in imprese che sembravano disperate. Nello, in Italia, teneva viva quella fiaccola, nascondendola sotto il moggio ». Era rimasto in patria a "lavorare, opponendo al regime il suo incontaminato rigore morale. Immerso negli studi risorgimentali, era convinto di adempiere, anche così, il suo non facile dovere di uomo libero. A tu per tu con le figure di Mazzini, Pisacane, Montanelli, confidava: « Quando mi trovo con quegli uomini mi sento a posto, mi sento a casa mia. Quella è la mia patria ». Sognava di coronare i suoi studi con una biografia di Mazzini. Scrittore felicissimo, possedeva come nessun altro la passione e l'arte del grande biografo. Di quest'opera non scritta, ancora oggi, non possiamo darci pace. E ancora più abietta ci appare l'infamia dei cagoulards, e dei loro mandanti nostrani. Nello era di una bontà disarmante, quasi contagiosa. Il questore di Firenze era costretto a cambiare spesso le guardie che dovevano sorvegliarlo, e che finivano sempre per essere conquistate dalla sua umanità. Ma sotto la mite, sorridente apparenza, aveva un'anima di ferro. Invitato, se voleva essere liberato dal confino, a sottoscrivere un'innocente dichiarazione, nella quale si impegnasse ad « attendere unicamente agli studi », rispondeva: «Rivendico il diritto e il dovere, che compete a tutti i cittadini pensanti, di occuparsi del loro paese e delle sue sorti, e di serbare di fronte al potere esecutivo una posizione ideale di critica e di controllo severo ». Inviato una seconda volta al confino, ripeteva, con una chiara reminiscenza cattaneana, molto probabilmente dovuta al maestro della sua giovinezza: «E' proprio il diritto del cittadino qualunque ad occuparsi anche di politica che io voglio rivendicare... E' proprio oggi, quando più costa l'affermare questo elementare diritto e dovere dei cittadini di tenere le mani sopra alla cosa pubblica, che bisogna proclamarlo ». A. Galante Garrone