Del disfattismo, della carne e di altre cose

Del disfattismo, della carne e di altre cose Del disfattismo, della carne e di altre cose di Leonardo Sciascia Sedici cittadini italiani, a Torino, si sono dichiarati e sono stati dichiarati dai medici affetti da «sindrome depressiva» e perciò impossibilitati a far parte dell'assise che avrebbe dovuto giudicare gli uomini delle Brigate rosse. Montale, in un'intervista, disse che quei cittadini non avevano torto e che avrebbe avuto paura anche lui. Dall'alto della sua età e della sua fama, nella certezza che per i suoi anni e i suoi mali non si sarebbe mai trovato nella condizione di quei cittadini a Torino sorteggiati in giuria, avrebbe potuto dire tutto il contrario, abbandonarsi alla retorica del coraggio e dei doveri. Ma è stato fedele a se stesso: umilmente si è messo nei panni di quei cittadini, ha detto la loro e la sua verità. Italo Calvino se ne è dolorosamente stupito: ha scritto un articolo in cui si affermava la necessità e il dovere che tutti si concorresse a restaurare lo Stalo, poiché tutti siamo lo Stato, poiché lo Stato è tutti noi. Io ho scritto una breve nota in cui dicevo di non riconoscermi in questo Stato in disfacimento e in corruzione e che «non fosse stato per il dovere di non aver paura» avrei rifiutato anch'io. (Della frase messa tra virgolette, nella polemica che è seguita, nessuno ha tenuto conto: con evidente slealtà). Calvino ha risposto che mi sbagliavo di grosso, ribadiva che lo Stato siamo noi e che se non fossimo corsi a restaurarlo il peggio era ancora da venire. Ho risposto che viviamo da vent'anni nella paura del peggio e che il peggio era ugualmente e puntualmente venuto, e viene giorno dopo giorno. Nel frattempo Norberto Bobbio aveva scritto sulla inevitabilità, e il dovere anche, di essere pessimisti: e che è «impossibile che la fine della prima Repubblica possa essere evitata». Sulle dichiarazioni di Montale, l'articolo di Bobbio e la mia breve e amichevole polemica con Calvino, si è scatenata — a quanto mi dicono, poiché non sono stato in grado di seguirla — la fiera reazione dei «benpensanti»: categoria che innegabilmente, in questi ultimi anni, è venuta su di inaspettato rigoglio in certi luoghi del Partito Comunista Italiano. (In questo articolo farò qualche volta uso del dizionario. Ecco la voce «benpensante»: «Chi s'attiene al pensiero ufficiale, dominante; chi s'ispira a concetti che sono tradizionali e seguono verità e norme da tempo stabilite». La scienza della parola resta ormai la più attendibile). L'Unità mi ha dato «una lisciatina» (testuale espressione di un parlamentare comunista che me ne riferiva): cioè un rimprovero duro ma di passata. Pajetta, mi dicono, me ne ha data un'altra in televisione: ma senza nominarmi. Spero, per la stima che ho di lui come uomo intelligente e spiritoso, non sia stata del genere di quella che mi ha dato quando ho lasciato il Consiglio comunale di Palermo. «Se il Consiglio comunale di Palermo abitualmente cominciava due ore dopo l'orario di convocazione», mi rimproverò allora Pajetta, «bastava che tu ci andassi due ore dopo». Il rimprovero mi turbò, scrissi una lettera che avrei voluto pubblicare su l'Unità e che non mandai. Feci male a non mandarla. Un giornalista francese che quel giorno, a Milano, aveva letto il corsivo di Pajetta su l'Unità mi disse poi che gli era parso «delirante»: un delirante esempio di come si andava verso il «compromesso storico». Era, si capisce, un giornalista di sinistra. Ma la «lisciata» più pesante, tanto pesante da poter essere considerata una botta, è venuta da Giorgio Amendola. Oltre che per la buona regola di offrire sempre al lettore il testo su cui si polemizza, vale la pena di riferire integralmente il passo, delle dichiarazioni di Amendola, che mi riguarda. Appunto, a dirla con Barthes, per il piacere del testo. O forse, in questo caso, per il divertimento. «Le dichiarazioni di Sciascia e Montale mi hanno addolorato, ma per nulla sorpreso. Il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana. Non dimentichiamoci che durante il fascismo era diffusa tra molti intellettuali (che pure non erano fascisti e nutrivano anzi sentimenti democratici) la pratica del "nikodemismo": la quale consisteva nel rendere sempre il dovuto omaggio a Cesare — cioè al regime — riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà. Speravo che dopo la Resistenza e le dure lotte di questi anni quel vecchio comodo costume fosse scomparso per sempre. M'illudevo. E infatti vedo riaffiorare l'antico vizio in forme naturalmente diverse. Le dichiarazioni di Sciascia e Montale sono profondamente diseducative poiché vengono pronunciate proprio nel momento in cui tutti gli ita¬ liani sono chiamati a dar prova di coraggio civile, ognuno nel posto che occupa». (Bella, questa battuta finale. Sarebbe ineducata e diseducativa la domanda: e i disoccupati?). ★ ★ Da questo testo, è evidente che Giorgio Amendola ha della paura e del coraggio nozioni che direi rivoluzionarie, se la parola non desse luogo a equivoci ormai incresciosi. Originali, ecco. Tanto originali da confondere il significato della parola paura con quello della parola coraggio. Ma appena pensandoci su, la segreta ragione di una tale inversione vien fuori: chi, dentro un partilo comunista, ha attraversato senza scendere da cavallo lo stalinismo e l'amistàlinismo, una giustificazione del suo restare a cavallo deve pur darsela e darla. E quale migliore di questa: che la paura assuma la definizione del coraggio e il coraggio quella della paura? Non è operazione da nulla, mutar pensiero o comportamento verso una cosa («la cosa», direbbe Sartre) che era già da prima, per chi stava a cavallo, quale poi la si fece apparire a coloro che vanno a piedi. Implica, una tale operazione, un certo di- (Continua a pagina 2 in terza colonna)

Luoghi citati: Milano, Palermo, Torino