La prigione di Pavese di Lorenzo Mondo

La prigione di Pavese La prigione di Pavese Sull'ultimo numero del settimanale Panorama è uscito un articolo che si intitola «Pavese a Mussolini», firmato Stefano Malatesta e basato sulle presunte rivelazioni di « un giovane studioso, professore di lettere all'Istituto tecnico di Nicotera ». Le rivelazioni consisterebbero negli esigui brani di « lettere » qui pubblicate, in cui Cesare Pavese, proclamandosi apolitico, fa atto di sottomissione al regime fascista e chiede la grazia a Mussolini per ottenere la sospensione del confino a Brancaleone Calabro. Il fatto in sé era sufficientemente noto attraverso l'epistolario dello scrittore; ma anche le stesse « lettere » oggi esibite erano state pubblicate integralmente da Domenico Zucàro sulla rivista II Ponte del 31 maggio 1974 (« Carcere e confino. Tre memoriali inediti di Pavese »). E ne aveva tenuto conto, in ulteriori attente ricerche, Bona Alterocca nell'articolo pubblicato sulla Stampa del 18 aprile 1976 (« I documenti della verità: Quando Pavese era al confino »). Proviamo a leggere, nei due « esposti » al capo del governo (l'altro testo è un « ricorso di appello » alla Commissione Centrale per l'assegnazione a confino) i brani maggiormente incriminati. « Non mi rivolsi sinora all'Eccellenza Vostra — benché consigliato da parenti e beneficati che ne conoscono tutta l'umanità — per una naturale ripugnanza a intralciare con piccole cose la giornata di Chi ha ben altro cui attendere. Ma ora il mio disagio e l'incertezza del mio avvenire si sono fatti intollerabili ». E ancora: «Supplica l'Eccellenza Vostra di volergli concedere il condono, onde curarsi e riprendere le proprie occupazioni normali, assicurando che in avvenire ogni suo passo sarà calcolato a difendere quell'ordine e interesse nazionale, dì cui Vostra Eccellenza è supremo assertore ». Lo scandalo, a ben vedere, nasce soltanto dalla disinformazione (la stessa per cui Massimo Mila viene confuso con Massimo Mida e Carlo Dionisotti diventa un irrecuperabile Cinnisotti) e dall'estrapolazione di periodi che finiscono col personalizzare missive che sono in realtà memoriali e ubbidiscono a un formulario d'uso. E (valgano a prova gli originali) proprio perché Pavese in qualche tratto se ne discosta e rilutta, è costretto a ripetersi, a ripercorrere le vie della mortificazione imposte da una tecnica sperimentata. Non voglio indulgere con questo alla leggenda, da vent'anni dissolta, di un Pavese engagé; voglio dire che, essendosi risolto a chiedere la grazia, doveva passare per quelle forche. ★ ★ Ma per dissipare i perduranti equivoci sul « caso Pavese », sulla sua esperienza del carcere e del confino, vale forse la pena riassumere i risultati ultimi delle ricerche, che si ha ragione di ritenere pressoché definitivi nonostante il riserbo di qualche sopravvissuto. Pavese viene arrestato a Torino il 15 maggio 1935 (aveva 27 anni) alla vigilia di recarsi a Roma per sostenere un esame di concorso che lo avrebbe abilitato all'insegnamento dell'italiano e del latino. E' uno dei tanti incappati nella grande retata della polizia voluta espressamente da Roma, da Arturo Bocchini. Si tende a scardinare il movimento di Giustizia e Libertà che ha la sua centrale a Parigi e si appoggia, a Torino, alla giovane casa editrice Einaudi e alla rivista La Cultura. Il regime vuole avere le spalle coperte, sa che l'opposizione clandestina vede illusoriamente, nella guerra d'Etiopia, una occasione rivoluzionaria. Dei 47 arrestati, una quindicina furono denunciati al tribunale speciale; altri sette, fra cui Pavese, furono trasferiti a Regina Coeli e messi a disposizione della Commissione per l'assegnazione al confino. Pavese viene condannato a tre anni, da scontare a Brancaleone, dove arriva il 4 agosto 1935. E' « ritenuto pericoloso per l'ordine nazionale, per aver svolto a Torino e a Milano attività politica tale da avere nuociuto agli interessi nazionali ». Attraverso l'epistolario e i memoriali possiamo conoscere i precisi capi di imputazione. Primo, è stato direttore della Cultura dal maggio del 1934 al gennaio del 1935: un incarico che egli poteva ricoprire perché iscritto al partito fascista (iscrizione d'altronde necessaria per chi volesse seguire la carriera dell'insegnamento). Pavese protesta al riguardo la sua buona fede, insiste sul carattere scientifico e letterario della rivista; ammette che gli erano noti i precedenti politici di certi collaboratori ma (con un candore che poteva apparire doppiezza o beffarda provocazione) « riafferma la purezza delle sue intenzioni e del suo sentimento nazionale, in quanto personalmente invitò e ottenne come collaboratori, vari suoi camerati torinesi, tra cui il prof. Giulio C. Argon, il prof. Adolfo Ruata, il prof. Carlo Dionisotti, il dott. Aldo Camerino, l'avv. Norberto Bobbio ». Tutti iscritti al partito, ma fiere tempre di antifascisti e per questo tenuti d'occhio dalla polizia. ★ ★ L'effettiva sordità di Pavese nei confronti della politica, la sua riluttanza all'impegno militante finivano per giocare paradossalmente contro di lui, per lasciarlo più indifeso di altri davvero compromessi nell'attività clandestina. Tanto più che esisteva, come aggravante, un secondo capo d'imputazione. Pavese riceveva in casa sua da Milano lettere di Bruno MafE (condannato anche lui a tre anni di confino) destinate a Battistina Pizzardo. Si trattava presumibilmente di corrispondenza cifrata. A quella donna, una insegnante di matematica di provata fede comunista, Pavese era legato da una tempestosa passione. Dopo le prime incertezze Pavese, che ha saputo come altri amici della Cultura siano stati rilasciati, magari con l'ammonizione, non dubita di essere stato l'involontario trastullo di una storia che lo supera, di giocare la parte di protagonista fittizio. Sembra accettare la situazione con fermezza e con spirito, cerca di essere almeno coerente con la sua storia personale, di affermarsi protagonista di una vicenda più circoscritta ma vera. Scrive dal carcere: «Di' alla signorina che la ricordo sempre e anzi, nella situazione in cui sono, bisogna che me la ricordi per forza ». Altrove paragona se stesso a Ovidio, scrive dalla Calabria le sue Tristia, colpevole anche lui di un lieve errore, non di avere operato, ma di avere visto, saputo. Rifiuta a lungo di chiedere il condono «... non me ne importa un fico; ma se un uomo fa di queste cose, la donna si vergogna per lui ». Per un certo tempo non lo turba il pensiero di essere « apparso uno stupido ». Poi cede alle sollecitazioni affettuose di parenti e amici, rivolge una prima domanda al capo del governo il 15 gennaio del 1936, una seconda il 20 febbraio. Ma si veda, nelle lettere, la raffica di invocazioni, sempre più stringenti, straziate e rabbiose, per avere notizie di lei, una sua sola cartolina, una firma. Il cedimento è favorito, se non provocato, dai cattivi presentimenti, dal timore, forse diventato certezza, di essersi illuso sulla donna che amava, dalla smania di tornare. Il 17 maggio è prosciolto dal confino, il 24 arriva a Torino con foglio di via obbligatorio. Ma il confino se Io porterà dietro per sempre, in quella sua difficoltà, mai elusa, di commisurare l'individuale al sociale, di contestare il privato con il pubblico e viceversa. Tutto sommato, una storia umanissima e perfino lineare, per chi non abbia la smania del drappeggio. E poi, l'antifascismo di Pavese, allo stato nativo, bisogna andarlo a cercare dove egli ha tutte le carte in regola, nelle poesie coeve di Lavorare stanca. Non si può rovistare proficuamente nei fondi di cassetto o nelle pieghe più oscure della vita di uno scrittore, trascurando le pagine da lui affidate alla luce del sole, dove si esprimono, fuse nell'immaginazione creativa, le inclinazioni dell'intelligenza e della sensibilità insieme con le affermazioni della volontà. Ma questo è altro, più impegnativo discorso. Lorenzo Mondo