Anche i falsari fanno la storia

Anche i falsari fanno la storia DALL'ANTICHITÀ AD OGGI Anche i falsari fanno la storia Roma, 29 maggio. Storia dei falsi, illustre per lo meno quanto l'arte antiquariale. Dico « arte » poiché ci vuole una sapienza, una finezza, un intuito per niente secondari a divinare quale sia l'oggetto « giusto » che incontri il gusto, l'amore degli acquirenti e li costringa a versare oboli su oboli per impossessarsene. E' un'arte che ha qualcosa da spartire con la culinaria, è stato scritto giustamente. Cosa di diverso è il saper vendere un oggetto antico, magari fabbricato lì per lì, se non mandare in soufflée quel poco che si trova in cucina, sbatterlo, volatilizzarlo, renderlo in un grembo d'aria perché un attimo di forno lo indori ? Certo: nelle calìe antiquariali può esservi una briciola di vero, una reale consistenza di storia; ma quanto, pure nel vero, può esservi poi di artefazione, chiara sbattuta, falsificazione tottt court? E' già falso di per sé fissare criteri di rarità (che alzano il prezzo) per qualsiasi coca: quei criteri rendono bizzarra, esotica, inafferrabile la cosa specifica, per il solo fine di far spurgare dal desiderio l'occhio del collezionista. A ben considerare e meditare, l'oggetto d'arte non dovrebbe avere prezzo (anche se, nel caso non lo avesse, di che sbarcherebbe il lunario un artista?). Intendo dire che l'oggetto da museo non dovrebbe avere prezzo: se ce l'ha è una invenzione, o una convenzione: e già truffa, comunque, che riduce l'arte a strumento per soddisfare brame per niente estetiche. Il collezionismo è metafora, lo sappiamo per via della psicologia del profondo, di passioni inconfessabili. Di qui, il passo alla « fabbricazione » di falsi è brevissimo. Se non ci vuol niente a falsificare la storia da parte di un mercante, il quale manda su e giù lungo i secoli, quanto più è furbo, il concetto di antichità e di rarità: figurarsi che ci vuole a « creare » di punto in bianco la rarità medesima, la « cosa » quando serve. Ci fu quel tale che infinocchiò il Louvre e inventò una tiara sarmatica: ne inventò lo stile, foggia, simbologia, qualità dell'oro, fino a inventare un intero periodo d'arte di cui quel « pezzo », dimostrò, era la sola preziosissima reliquia, l'unica individua testimonianza. Ebbene, quella tiara troneggiò in una teca, ebbe i suoi visitatori, i suoi devoti, i suoi scaccini che sapevano con un'occhiata disarmare e allontanare gli osservatori troppo affezionati e sospetti. Fu questa una invenzione degna di un racconto di Savinio o di Borges. Poi, la tiara passò nascosta nelle cantine. La sua ora di gloria si concluse in malinconia. Mi pare di ricordare, se non confondo, che il suo « autore », una voi ta scoperto, si chiamasse Rachumovskij (era per caso sgusciato fuori da un falsificato romanzo « occidentale » di Joseph Conrad?). Varrebbe la pena rimetterla alla luce quella tiara: scopriremmo forse che era opera di un artista. Dunque, se il falso di per sé nasce nella mente del mercante, non è detto che l'oggetto falso sia poi in sé spregevole. C'è in chi si dispone all'atto del falsificare, un artista o un gioiello, qualcosa di più e diverso del semplice istinto venale. C'è una forma paradossale e gregaria di artisticità o di artistica « invidia », che ne spegne, o dovrebbe spegnere (il giudice su questo non ci sente), l'indignazione, la ripulsa. I falsari hanno creato una storia parallela dell'arte, e non solo parallela, su cui si dovrebbe indagare di più. Pare che a inventare codesti falsari siano stati i romani, i ricchi romani avidi di abbellire i propri impluvi e triclini di statuaria greca. C'è scritto in Fedro: falsificarono la firma di Prassitele. Non falsificano oggi la firma di De Chirico e Picasso? Nell'antichità romana non si contarono le firme spurie di artisti greci. I Dioscuri del Quirinale, a Roma, portarono l'iscrizione opus Phidiae, opus Praxitelis, falsa naturalmente: eppure i due gemelli, bellissimi, con quelle loro carni candide, un tantino frolle (già si direbbe troppo nutrite di pastasciutta), stanno lì, fanno da ronde-point al traffico che sale da via 24 Maggio e scende da via XX Settembre. I falsi ellenistici, con l'etichetta « copia di », nei musei di tutto il mondo, sono diventati pezzi « unici ». E' questa l'astuzia della storia, o l'astuzia della ragion pratica che, lo sappiamo bene, non bada a spese, e sa vincere sempre su tempi lunghi, lunghissimi. La confusione la creò il Rinascimento, quando la copia « vera » e la copia « apocrifa » si scambiarono le parti con festosa sfacciataggine. Dilagarono i più falsificatissimi bronzi corinzi, i marmi e i marmetti, per non dire le monete, o i diaspri e le ossidiane. L'amatore poteva integrare la propria collezione con un doppione dal vero: poteva anche commissionarlo allo scalpellino di fiducia. In questo, dove va segnato il limite della falsificazione, ancorché il diritto lo rilevi? Nel 700, tutti i seguaci di Winckelmann e affini si spartirono i compiti della più sfrenata produzione di duplicati. Giuseppe Guerra, scolaro del Solimena, napoletano, dipinse « Pompeiano » come nessuno; Antonio Pichler, venne a Roma da Bressanone, incise in stile ellenistico gemme con idre, unicorni, Muse insidiate da Apollo, cacce di Diana e così via; i suoi figli, dicono le storie, girarono l'Europa trattando « anche » soggetti originali... Erano persone rispettate, onorate; tutti falsari noti. Difficile in loro discriminare, in quel secolo di scoperte compiute in buona o in mala fede, la viltà mercenaria, l'avidità mondana, dal piacere espressivo sia pure pappagallesco. Di lì a qualche decennio, quante false tanagre, quanti falsi vetri dorati veneziani o paleocristiani, e i « Ieonardi », e i « primitivi », le tombe di Giulietta, gli anelli di Desdemona, le fibbie di Francesca. L'800 inventò un Medioevo a uso e consumo dei librettisti d'opera, fossero costoro raffinati come Felice Romani o grezzi come Francesco Maria Piave. Basta sfogliare un romanzo di Balzac, alle pagine in cui lo scrittore illustra le grandi collezioni di certi suoi amatissimi personaggi, dove i Sebastiano dal Piombo vanno sprecati, per capire che follia di falsificazioni e che delirio nel venir turlupinati animavano il mercato d'arte del tempo. A quel bri-à-brac doveva porre sugello, in chiusura, soltanto Gabriele D'Annunzio, poeta della falsificazione come nessun altro. « Dorme, poggiata a'I davanzale I del balcon fiorentino I la Titanio di Shakespeare; e un divino I sogno dal cuor lunatico le sale. I Una rete d'argento siderale I i suoi capelli accoglie, I e luminose fiasciano le spoglie, I dei colubri la sua forma ideale... ». Ad apertura, in « Isaotta Guttàdauro », si trovano strofe ancora più incredibili. La Titania scespiriana, il balcone « fiorentino », o soon indizi di u affastellare segni e simboli secondo la logica scombicche¬ rata che guida il falsario al lavoro? Non mancarono poi gli « scientifici », i fastidiosi filologi del pennello o dello scalpello. L'astuzia e la pignoleria di Giovanni Bastianini sono riuscite a far rubricare come originali un busto di Savonarola al Victoria and Albert Museum di Londra, e al Louvre un busto di Girolamo Benivieni. Bastianini viveva in un « suo » 400 fiorentino: co l'età del Magnifico aveva evidentemente medianici rapporti. Per non dire di Alceo Dossena, davanti al quale Desiderio da Settignano e Donatello non avevano segreti: gli suggerivao opere da loro progettate e mai compiute. Dossena spacciò al Metropolitan Museum di New York i suoi pezzi: fu «scoperto», naturalmente, dopo anni (1928). Van Megeren, invece, e siamo in tempi a noi prossimi, si perfezionò in Van Gogh e in Vermeer: lo diremmo un proustiano, stupendamente rapito dai misteri della luce fiamminga. Probabilmente non ce la faceva a dipingere « in proprio », o era schizofrenicamente diviso fra turbamenti espressionistici e ideali di sovrumana purezza. Pensò bene di « approfittare »: anche lui fu scoperto. Di tutta l'odierna storia di De Chirico & C. ciò che salta subito all'occhio è l'aspetto di industria, la rete vastissima di facitori e di export-import, dove l'« autore » si è perso o cerca di perdersi, e facilmente dilegua. Diciamo, pure con spreco di retorica, che la massificazione impazza e che nell'anonimia la nostra civiltà precipita. Il falsario, ormai, agisce « in serie », anche a più mani, secondo il criterio della catena di motaggion. L'odore della cucina, dove un solo cuoco è depositario della ricetta, forse non lo sfiora più: il suo « prodotto » è surgelato, i suoi De Chirico sono Findus. Enzo Siciliano

Luoghi citati: Bressanone, Europa, Londra, New York, Roma