Il film su Guthrie al Festival di Cannes di Stefano Reggiani

Il film su Guthrie al Festival di Cannes Il film su Guthrie al Festival di Cannes Cantante vagabondo dell'altra America Un regista francese fa il ritratto di Mao - La pellicola su Pelé (Dal nostro inviato speciale) Cannes, 18 maggio. Diceva Woody Guthrie: «Quello che conta è non perdere il contatto con la gente». Giustissime parole, che valgono in tutte le occasioni politiche. Si capisce che adesso l'America recuperi Guthrie come una specie di rimorso e che lo celebri in cinema, con la sua capacità di rendere istituzionale l'anticonformismo e di assimilare la rivolta. Woody è stato un cantastorie errante, il chitarrista della gente, figura leggendaria già prima di morire, nel 1967. Era nato in Oklahoma nel 1912, in una famiglia benestante poi travolta dalla crisi del '29. Negli Anni Trenta, durante la grande depressione americana, Woody scrisse centinaia di canzoni, che adesso costituiscono la colonna sonora, generosa e stravagante, di un periodo duro e violento. Cantava quello che vedeva, i poveri e i ricchi, gli Stati della miseria e quelli dell'opulenza, la spartizione dell'America in due anime. Ha ricordato Guthrie nel suo libro di memorie («Questa terra è la mia terra»): «Ho scritto un sacco di canzoni per i sindacalisti, le ho cantate dappertutto dove i lavoratori si riunivano a discutere, dal Madison Square a una taverna di Harlem, dagli studi radiofonici al retroterra selvaggio del paese». L'incarico di celebrare Woody Guthrie col film Bound for glory» è stato affidato al regista Hai Ashby (quello dell'Ultima, corvée,). Egli ha ritagliato nella vita del cantante una fetta di Anni Trenta e ha cercato di tracciare, insieme col ritratto di Woody, un quadro della gente, una riflessione su quella America e sugli anni seguenti. Era un impegno difficile da mantenere; spesso il mestiere supplisce all'inventiva e la maniera vince sulla autenticità. Le baracche di disoccupati, i campi di esuli che si videro in Furore di' Ford qui si sono dilatati in una descrizione insieme più dettagliata e più rarefatta, ammorbidita dal colore e dalla certezza (in Ashby) che il riscatto verrà, anzi, è già sorto nelle prime lotte per formare il sindacato. Il racconto comincia tra vento e polvere in un paesino del Texas. Woody è un bravo ragazzo che fa tutti i mestieri: dipinge insegne, guarisce i malati immaginari, suona la chitarra. Non combina molto e decide di partire per la California, Io Stato della ricchezza, in cerca di fortuna. S'intende che viaggia in treno merci con gli sbandati e gli affamati di tutta l'America povera. «Vedevo uomini di tutti i colori sballottati nei vagoni. Ci stringevamo l'uno contro l'altro e sentivo l'odore aspro del sudore...». In California, invece del facile paradiso terrestre trova i campi di sbandati che attendono di essere assunti a giornata dagli agricoltori. Una grande organizzazione di sfruttamento. Mentre qualcuno, sfidando le bastonate dei proprietari, cerca di organizzare un sindacato, Woody partecipa alla lotta con t'arma della chitarra: «Dapprima erano canzoni divertenti su tutto quello che andava male, fioi cominciai a spiegare perché e cose andavano male e come si poteva fare per correggerle». Una radio locale arruola Guthrie, perfino una rete nazionale s'interessa al suo ininterrotto flusso di ballate, ma i temi sono troppo scottanti e imbarazzanti. Tra l'obbedienza al conformismo e le proprie convinzioni Woody sceglie di pirare per l'America a trovare il suo pubblico vero. Lui stesso ne ha fatto un elenco: «Cineasti, cow boys, ladri, vagabondi, poliziotti, drogati, contadini, vamps, brave ragazze, prostitute...». Ma non dovete credere che il film contenga tutto questo. Appena una parte, che si poggia, per non cadere, sulla scabra interpretazione di David Corrodine. Ci sono anche dei cortometraggi in competizione a Cannes. Li hanno riuniti in gruppo: l'opera più interessante sembra Mao visto da se stesso del francese René Vienet. Il regista è anche direttore del Centro studi sull'Asia in una delle università di Parigi, ha insegnato in Cina, dirige una collana di libri che ha pubblicato tra l'altro Cinesi, se voi sapeste... Nel documentario, fondato su immagini rare o inedite (come le riprese a Yenan dopo la lunga marcia) e interamente commentato da pensieri del presidente, si vuol scoprire che Mao non era maoista nel senso corrente. Ma molte più cose ha voluto dire Vienet nel film che viene presentato questa sera nella Quinzaine: Cinesi, ancora uno sforzo. Lui dice: «Dopo le dichiarazioni di Mao, non si dirà che io sono settario. Col mio film voglio correggere tutte le stupidaggini sulla Cina». Per chiarire la sua posizione gli chiedono: «Torneresti in Cina?», risponde; «Volentieri, ma solo se potrò lavorare con i miei amici cineasti imprigionati da Ciang Cing». Vuol girare «La condizione umana», descrivendo quello che Malraux «non ha potuto che evocare». // Festival è ospitale. Dopo la Cina, c'è Pelé, il grande calciatore. E' venuto di persona, e anche come soggetto di un film di Francois Reichenbach, prodotto in Messico: non è una raccolta delle sui migliori azioni di gioco, piuttosto un ritratto dell'uomo e del suo paese, il Brasile, secondo la vocazione di Reichenbach, prevalentemente sociologica. Si annota il rapporto tra la musica brasiliana e il calcio, poiché «l'una e l'altro danno al pubblico la stessa gioia». E c'è il riserbo di Pelé, il suo segreto pudore che, dice Reichenbach, è quello di tutti i grandi campioni. Stefano Reggiani