RAPIMENTO DE MARTINO E INCENDIO AL SUPERMARKET di Francesco Santini

RAPIMENTO DE MARTINO E INCENDIO AL SUPERMARKET RAPIMENTO DE MARTINO E INCENDIO AL SUPERMARKET Nel sottobosco di Napoli Sono soprattutto la periferia e il contado che reclutano un esercito vagante di pericolosità sociale - Miseria e criminalità s'intrecciano con i più inquietanti trasformismi politici - La protesta dei 413 disoccupati davanti all'ufficio di collocamento (Dal nostro inviato speciale) Napoli, maggio. Al Vomero e in piazza Mercato, le ultime ferite di Napoli. In un quartiere residenziale, il rapimento di Guido De Martino; nel centro della città vecchia, l'incendio di un edificio che era un intero emporio. Il sequestro arriva da lontano, le fiamme vengono da vicino. JVeH'affaire De Martino c'è un mandante oscuro e inquietante, forse al di là del confine italiano; per l'incendio basta fermarsi in provincia, a una guerra di racket e di clan, scatenati per la conquista del Golfo. Due episodi distinti. Ma gli strumenti non sono diversi. I taglieggiatori imparano ad usare le bombe; gli strateghi dell'incertezza scelgono i loro uomini in quell'esercito della disperazione meridionale che oggi tutto consente. Due ferite partenopee per un'unica chiave, in quell'intreccio, già saldo, tra criminalità e terrorismo politico. Tre esplolioni, potenti e piene, preamiunciarono l'incendio, mentre si sa dal resoconto di Guido che i suoi guardiani erano dell'hinterland napoletano. Gli hanno parlato di povertà e di bisogni, convinti ormai che la crisi tutto possa legittimare, tutto permetta, anche il delitto più odioso. In piazza Mercato, dietro la Marina, un solo carabiniere di guardia per l'edificio annerito dal fumo. Sui primi tornanti del Vomero un'auto della polizia per la casa dei De Martino. Il militare se ne sta nell'ombra, tra il venditore di pergamene araldiche e il ragazzo vestito da sultano che predice il futuro; la polizia ferma l'ambulante che porta, su per i piani del vecchio edificio umbertino, un secchiello di alici. Ma gli espedienti di oggi sono diversi da quelli di ieri e le cose di cui vive la città non fanno più folklore. Il giovane dell'oroscopo viene dal Matese, l'uomo degli stemmi arriva, al mattino, dal Cilento e il pesciaiolo che si arrampica per le scale dei De Martino parte da Casoria. E' una provincia sterminata che sbarca in città, convinta che Napoli sia quella di un tempo, che le sue regge diano ancora da vivere. La città non si specchia nel passato e un vecchio prete che vive assediato nella chiesa di Croce a Mercato compila una sua listarella. Tra i sinistrati dell'incendio ha selezionato dieci famiglie. Nella ragnatela dei vicoli bloccati dal fuoco, ha trovato soltanto poche persone afflitte dal bisogno; non perché un'ondata di ricchezza abbia travolto il quartiere Pendino, soltanto perché « Napoli è morta, non c'è più ». Il vecchio prete non celebra matrimoni. Non dà il battesimo. Rari i funerali. L'ultimo è di tre mesi fa, con il morto trasportato in Rolls Royce: un commerciante all'ingrosso, pianto da sei figli e ossequiato da una schiera di dettaglianti che riforniva, finanziava e proteggeva, in un circolo d'affari che, sempre, a lui tornava più esteso, denso di vantaggi. E l'incendio? Il prete di Croce a Mercato non ha meraviglia: un fornitore di servizi igienici ha resistito a una taglia dì cinque milioni: « Ecco il risultato » (almeno lo dice la gente e lui lo ripete). Nella piazza dove lo sdegno di Masaniello esplose nella follia per spegnersi nel tradimento, Napoli è scomparsa. Il suo folklore oleografico viene da lontano, dalla zona intermedia della regione, esclusa da ogni beneficio, dimenticata dai poliì tici che adesso hanno pan- ra. Temono Eboli e Battipaglia, e la criminalità del Nolese e di Giugliano. Tendono l'orecchio in direzione di Aversa. Incaricano il sindacato di rivedere la « vertenza Campania » perché non privilegi l'area metropolitana ma ascolti le richieste che dalle zone centrali della regione si fanno pressanti. E' una periferia in fermento, un esercito vagante di pericolosità sociale. Un intreccio tra disoccupazione ed emarginazione che si può far giocare in direzioni opposte, per un incendio, per un sequestro o per una reale avanzata della democrazia. Un dramma che Nando Morra, segretario regionale della Cgil, denuncia con parole d'allarme: « Un terreno minato sul quale il sindacato gioca il suo ruolo nel Mezzogiorno ». La paura arriva da lontano e si riversa su Napoli che ha le sue mine innescate, di senza lavoro e di rabbia, di tensione e incertezza, in un proliferare di liste, di piccoli cortei, di indirizzi politici contrapposti, spesso intrecciati. C'è una pattuglia che si muove da Miano, un centro alla periferia nord di Napoli. A guidarla, il segretario della sezione del msi-dn. E' Vincenzo Luciano: predica la presenza in piazza « continua e quotidiana ». E' uno degli uomini di Abbatangelo: un passato di attivista acceso e manesco lo ha portato a un seggio nella Sala dei Baroni. Gruppi e bande Il segretario di Miano insiste: «Dicono che siamo fascisti, siamo apolitici». Allora presenta i suoi gregari. Sì scoprono connivenze preoccupanti. C'è Domenico Avolio che ha 29 anni e viene dalle file dei marxisti-leninisti. C'è Vincenzo Cicariello che, in passato, ha dato il suo nome per la lista elettorale di democrazia proletaria a Napoli. C'è un ragazzetto che era con i democristiani di Vincenzo Luciano; ne indica un altro: «Era un simpatizzante del pei, adesso è con noi: niente politica, soltanto disoccupazione». Ci sono le bande di Miano e quelle degli ultras di sinistra che hanno costretto il sindaco Valenzi a chiamare la polizia nella sala del Consiglio. Nascono nello stesso ambiente che ha consentito di trovare i guardiani per De Martino e i plastiqueurs di piazza Mercato. Poi c'è una lista che dalla settimana passata s'è accampata dinanzi all'ufficio di collocamento. Ha piantato una tenda in via Amerigo Vespucci. E' la «Sacca Eca» dei 413. Afferma di rappresentare 3461 dìsoccupati: quanti cioè non hanno avuto risposta alle promesse che pure, il 19 giugno dell'anno passato, il sottosegretario Manfredi Bosco garantì in una riunione di prefettura. Chi siano nessuno lo dice. Poi fanno il nome di Alfredo Vito, 31 anni, segretario democristiano a Montecalvario, consigliere comunale doroteo, uomo di Gava. E' gentile nell'aspetto, mite. Paziente nelle risposte, calmo nei toni, mai in imbarazzo. Per lui l'accusa è pesante: una doppia azione di disturbo condotta con abilità: di tensione, contro il Comune governato dalle sinistre, di disarticolazione contro il sindacato per aprire un varco nella linea unitaria. Nelle risposte, Alfredo Vito è attento e subito dice: «Lo so, è sempre il mio nome che torna nei sussurri». Allarga le braccia: «Di quei gli uomini ne conosco due, forse tre, nulla di più, come potrei manovrarli?». E poi perché giocare allo sfascio quando i democristiani, adesso che il voto di Castellammare ha riaperto una speranza, sono convinti di poter tornare a Palazzo S. Giacomo? «Alla lunga Napoli saprà giudicare». Vito sembra sicuro. Ma perché il suo nome? «Perché io ho profondamente spaccato quell'unità politica all'interno dei disoccupati organizzati che era monopolio del pei. Il boomerang torna contro di loro, la città ha capito: il pei era l'ultima spiaggia, due anni di governo e la sua credibilità s'è rotta». Napoli, come una città feudale, sempre è stata di qualcuno: era di Lauro e dei costruttori edili, diventò di Gava e dei suoi uomini dei consigli di amministrazione. I tecnici del centrosinistra non la ebbero mai e oggi che il mito di Valenzi si consuma in un'attesa logorante, la cit tà si disumanizza in una provincia che la inghiotte e la minaccia. Rispondono accorati i politici: «Altro non si può fare. Siamo in Comune, ma i centri di potere, tutti, sono di Gava». E un consigliere comunale comunista incalza: «Le istituzioni non sono il potere, ma solo un suo simulacro». Cita le banche, le aziende municipali, il porto, la Centrale del latte, la Camera di commercio, la Cassa del Mezzogiorno: il sottogoverno. Ma Gava risponde: «E' un insulto alintelligenza della città: Napoli non è un pianoforte. Mai, a suonarla, è stata una sola mano». Sotto la tenda della «Sacca Eca», in via Vespucci, il silenzio è grande, i disoccupati sono nell'edificio di fronte, in assemblea permanente. Il collocamento è presidiato dalla polizia. Ricevono il cronista nell'ufficio del vice direttore Vaccarella, sono loro a rispondere al telefono, sono loro «a garantire funzionamento e attività». Sono i 413 che Alfredo Vito sostiene di non conoscere. C'è Giovanni Ricenno e Ugo D'Aquino. Ci sono Mario Boccardi e Domenico Pomponio, Eduardo Gatti e tanti altri. Dicono di essere i «vari disoccupati organizzati», con tessera e bollino. «Abbiamo fatto fuori i politicanti, noi siamo per il posto di lavoro ». E' una massa incerta. Non nascondono le attività che pure fanno per vivere; e molte sono illegali, dal contrabbando sino al furto, dal giro degli appartamenti alla simulazione della vendita del tappeto offerto per avvicinare il soldato americano che torna ubriaco al porto e sfilargli il portafogli. Non nascondono l'illegalità: il furto è consentito, ogni reato è permesso. I sindacalisti Poi, nell'imbarazzo arrivano tre sindacalisti. Sono con i 413, ma subito precisano: «Siamo qui perché si mantengano gli impegni assunti». Un ruolo difficile per un sindacato che si impegna in una battaglia decisiva: sono con la «Sacca Eca» per impedire che, abbandonati e soli, i 413 possano diventare una massa di manovra da scatenare per le vie della città. Il rappresentante della Cisl raccomanda: «E' un ruolo delicato nella consapevolezza del pericolo, perché non si scelga la strada della provocazione». Nella sera il Golfo si accende di mille luci. Il carabiniere resta a piazza Mercato, nell'angolo di Vico Barre che è transennato. La piazza è silenziosa. Comincia un'altra notte d'incertezza con i taglieggiatori divisi in clan che si combattono. L'auto della polizia è ferma sotto la casa dei De Martino. Il mare è lontano, buio in una notte senza lampare. Il traffico impazzisce verso via Tasso. La via marina è bloccata da mille auto malandate. Dal mare già si respira l'odore dell'Asia. Anche stanotte i pescatori di Mergellina hanno deciso di non uscire: il Golfo non ha più vita. A sfrecciare, nel buio, soltanto i motoscafi blu del contrabbando che pigliano il largo in direzione di Capri. Francesco Santini