LAVORI IN CORSO

LAVORI IN CORSO LAVORI IN CORSO Sera a Manhattan Quel venerdì sera, primo giugno 1961.. avevo deciso di festeggiare da solo la fine dello Spring Term. Insegnavo da ottobre a Storrs, una piccola università del Connecticut. L'esperienza che avevo fatto dopo il Fall Term e dopo il Winter Term mi sconsigliava di accettare un terzo invito in casa di qualche collega, lettore come me. o professore. Bravissima gente, cordiale e ospitale. Ma, forse perché mi era sgradevole emularli nel consumo di alcool che per l'occasione pareva loro obbligatorio, sapevo ormai di preferire alla tristezza finale di un loro party la melanconia talvolta deliziosa della solitudine. Decisi di andare a New York, a Manhattan: prima al cinema, poi cena da solo in qualche snack. Il piccolo fiat che ero riuscito a affittare era troppo lontano dall'Università perché non mi fosse necessario un car. Avevo comperato una Volkswagen di seconda mano che adempiva benissimo alla sua funzione. Poco più di tre ore di tragitto, lasciai la macchina in un parking a Columbus Circle. Scesi Broadway, felice appunto di sentirmi solo e lontano dall'Italia, nella felicità festiva dell'immensa folla: il Sabato del Villaggio era diventato per me il Venerdì della Metropoli. Finché entrai in un cinema. Non mi ricordo che film ho visto. Verso le dieci uscii. Risalendo verso Central Park, a un certo punto svoltai in una via laterale, semibuia e poco affollata; andavo verso Seventh Avenue, e mi resi conto che, così, mi allontanavo da Columbus Circle, dove avevo lasciato la macchina: cominciai, allora, a rallentare il passo con una mezza idea di fare dietro-front, tornare subito a Storrs, e cenare da Coles, che era aperto fino a tardi. Da qualche giorno non ci andavo: gli esami mi avevano obbligato a un lavoro extra e prendevo i pasti nella cafeteria al seminterrato del College. Naturalmente, le ombre della mia mezza idea nascondevano la lontana luce bionda di Edith. Una speranza che quasi non confessavo a me stesso! Ormai mi vergognavo di pensare a Edith come di un capriccio votato all'insuccesso, come di un puntiglio ridicolo. Cercavo dunque di liberarmene: almeno di liberarmene in quel week-end, cominciando da quel venerdì sera, tanto più che avevo perso il conto dei turni e non ero affatto sicuro di trovarla da Coles. In questa comica indecisione, continuavo a camminare sempre più adagio, ma sempre verso Seventh Avenue, cioè verso la libertà, nella direzione contraria all'istinto dell'uomo debole che era in me. E, una volta al semaforo di Seventh Avenue, l'uomo forte improvvisamente fu premiato: vedendo quella fulgida fantasmagoria colorata, quella prospettiva di ristoranti snacks cafeterias grills — ero solo imbarazzato nello scegliere — capii di avere un appetito dell'accidente. Luci rosse: mi accodai al gruppetto che attendeva. Luci verdi: tranquillo mi avviai con quelli che attraversavano. Un marinaio in divisa di tela bianca e una ragazza mi sorpassarono di corsa, ridendo e urtandomi. La ragazza era Edith! Si fermarono di là, sul marciapiede, continuando a ridere e discutendo tra di loro e guardando verso una grande birreria che occupava tutta la cantonata. Prima ancora che li raggiungessi, si erano messi d'accordo: entrarono nella birreria. Li seguii: un semaforo aveva deciso la mia vita. Box di legno verde chiaro, alla bavarese, come molte altre birrerie di New York. Pieno di gente. Avevo trovato un angolo libero: lontano, ma verso loro due. Edith fumava: era seduta di faccia, il marinaio di spalle. Edith si accorse di me quasi subito: diversamente da quanto mi aspettavo, mi salutò con sorriso franco e spontaneo. Dunque, era contenta dell'incontro! Lei, sempre così corrucciata quando mi vedeva da Coles. Ma forse, mi dissi, era contenta proprio perché stava col suo boy-friend. Ordinai al cameriere una birra e un hamburger: ma intanto Edith, levando la mano con la sigaretta, mi accennava di venire da loro. Si faceva in là sul sedile, nel box c'era posto per me. Il marinaio si era alzato e voltato verso di me, sorridendo anche lui. Il cameriere protestò, non poteva servirmi là. « Never mind », dissi e mi avviai al box di Edith. Il marinaio era rimasto in piedi: lungo com'era, quasi toccava il basso soffitto di legno. Biondo, inagrissimo, di¬ noccolato nella bianca divisa, sfavillanti occhi celesti. Per la prima volta Edith mi tendeva la mano: impaziente, afferrò la mia con una stretta energica e affettuosa, neanche ritrovasse ur, vecchio amico. Non avevo mai sentito la sua mano: era come la immaginavo e come mi piaceva: forte, larga, asciutta, nervosa, sincera. « This is my brother », disse ridendo felice. Suo fratello! L'ultima cosa che avrei pensato! E infatti le assomigliava moltissimo. Perfino la mano: identica a quella di lei, ma sudaticcia: un particolare per me così sgradevole, che se fosse stato anche della mano di lei sarebbe bastato da solo a distruggere tutto il suo incanto. « Sit down, professor Telucci », mi invitava a prendere posto nel box vicino a lei. « Sapete il mio nome? ». « Certo. Come volete che non lo sappia? Tutti lo sanno, a Storrs, ci siete da tanto tempo! ». « Ma io non so il vostro », ero divertito al pensiero che per lei dieci mesi fossero such a long time, « qual è il vostro nome? ». « Edith. E mio fratello è Vaclav, un nome cecoslovacco. Noi siamo nati qui, ma i nostri genitori sono venuti dalla Cecoslovacchia poco prima della guerra. E voi siete europeo, of course, professor Telucci. Ma di che nazionalità siete? ». Senza curarmi di correggere la pronuncia del mio cognome, dissi che ero italiano. E fu allora la sua grande sorpresa, e la prima delle infinite volte che mi parlò di Anna, la sua grande amica italoamericana: « E' al Messico, ora, fa parte di un tour, lavora in uno spettacolo formidabile! E' ballerina, e canta, anche! A beauty, una bellezza! Quando ritorna a Storrs, ve la presenterò, vi conoscerete, diventerete amici. Vi piacerà. Anche lei è italiana, ma non vi assomigliate proprio niente. Vi piacerà lo stesso! ». Vaclav si trovava in licenza. L'indomani tornava a imbarcarsi. Disse il nome della corazzata. Sarebbe stato congedato alla fine del '62, ne aveva ancora per un anno e mezzo. Un anno e mezzo nel Pacifico! Quella era la sua ultima sera di libertà e aveva deriso di festeggiarla con la sorella a New York. Rimanere a casa soli coi genitori già anziani e pensionati? Troppo triste. Erano stati al cinema. Dissi che anch'io ero stato al cinema. Cominciammo subito a parlare fitto di tutto, a ridere, a scherzare su tutto, in un intreccio esplosivo di domande e risposte: cinema, New York, 1 miei colleghi professori a Storrs, la mia vita a Storrs, i miei week-end in montagna a sciare, il cibo americano, il cibo italiano, il cibo cecoslovacco, la vita dei marinai sulle corazzate e quando scendono a terra, la potenza navale sovietica e quella degli Stati Uniti; quello che avrebbe fatto Vaclav quando, tra un anno e mezzo, sarebbe stato con gedato; quello che avrei fatto io, quando, circa alla stessa data, sarei tornato a Milano... e Edith, che cosa avrebbe fatto Edith? « Niente di diverso; sono contenta così. Forse, lavorare un po' meno e guadagnare un po' di più. Ecco tutto », e accese un'altra sigaretta. « Ti sposerai », disse Vaclav. « O shit! », disse Edith: merda! « Non voglio bambini. E a che scopo sposarsi quando non si vuole bambini? ». Avevo Edith di fianco e suo fratello davanti a me. Perciò di quella sera straordinaria, mi ricordo più lui di lei. Edith mangiava appena, e fumava quasi senza interruzione. Aveva sul tavolo tre pacchetti di marche diverse: ogni volta, accendendone una nuova, cambiava. Vaclav, invece, beveva un boccale di birra dopo l'altro e mangiava furiosamente tutto meno i pretzel che non portava neanche alla bocca ma continuava con le lunghe dita stranamente magre e delicate a spezzettare e a raggruppare in tanti piccoli monticelli sulla tovaglia di carta a scacchi bianchi e rossi. Era allegrissimo e nervosissimo, non altrettanto simpatico della sorella Forse già brillo: «Edward!» mi disse al dessert: « May I cali you Edward? You may cali me Vaclav ». Era come se mi proponesse di darci del tu. « Si capisce ». « And how do you say Edward in Italian? ». <: Edoardo ». « Well, Edoardo, what about a little whisky now? ». Contrario al whisky, esitavo. Ma Edith approvò con entusiasmo, e non volevo dispiacerle. Andò a finire che 10 bevvi un whisky, Edith due o tre, e Vaclav non ricordo quanti. Erano le undici passate, si avvicinava l'ora dell'ultimo bus, che loro due dovevano prendere per tornare a Storrs. Già avevo pensato di portarli a casa io con la macchina; ma per il momento non ne parlavo: chissà quando, altrimenti, Vaclav si sarebbe spostato di lì. Aveva ordinato altra birra, e ci versava dentro il whisky. Cominciava a cantare. Ne approfittai per allontanarmi un momento e di nascosto pagai il conto. Era un gesto da borghese europeo, forse loro non lo avrebbero gradito completamente: soprattutto Edith. Ma perché fingermi diverso da quello che sono? Quando tornai al box, vidi che Edith mi scrutava seria. « Dobbiamo andare » disse a Vaclav guardando l'ora. « Chiamiamo il conto ». Mormorai che era fatto. « Edoardo, non devi », protestò lei pronunciando benissimo il mio nome in italiano, « non siamo in Europa ». « E va bene, la prossima volta pagherete voi. Non volete che ci sia una prossima volta? Ci ritroveremo, spero! Partirò dopo il ritorno di Vaclav! ». Uscimmo nell'aria della notte newyorkese: spirava dallo Hudson, fresca e pura, anche se eravamo ormai a giugno. Vaclav barcollava, lo mettemmo in mezzo, e dopo un paio di blocchi, invece che verso down town dov'era la stazione dei bus, svoltai verso Columbus Circle, dicendo finalmente che avevo là il car. « Edoardo! You are a friend! »: sei un amico, gridò Vaclav abbracciandomi e baciandomi sulla bocca. In macchina, non ci fu verso: volle rimanere vicino a me. Edith in principio protestò: si arrese solo quando si accorse che Vaclav era troppo lungo per 11 sedile posteriore della Volkswagen. Ma poi, andando, non sapeva dove mettere il braccio sinistro, lunghissimo anche quello: cinse il mio sedile, ciondolò, e a poco a poco lasciò cadere la testa sulla mia spalla. «Let him drive, poor man!»: lascialo guidare, poveretto, diceva Edith mentre lui, forse, si era già addormentato. Forse. Mario Soldati (Dal romanzo in corso « La grande cognata »)