Intimismo e conti in banca di Giovanni Arpino

Intimismo e conti in banca IL FESTIVAL DI CANNES PORTA BENE I SUOI 30 ANNI Intimismo e conti in banca Niente trionfalismo: si dice persino che il cinema sia morto, e comunque non abbondano i miliardi né le "stelle" - Ma la festa incomincia, con tanti italiani e con qualche idea nuova - Finiti i temi di sesso e violenza, prevalgono i film crepuscolari (Dal nostro inviato speciale) Cannes, maggio. Dì un festival si sa sempre tutto prima che cominci. Figuriamoci se protagonisti, comparse, maneggioni, ex divi e affaristi non sono perfettamente a conoscenza di ogni segreto, qui a Cannes, dove sotto una pioggerella desolante e tra sbuffi di nebbia si è inaugurata la trentesima edizione del Festival cinematografico, gloria effimera e affari condotti con l'artiglio, politica e vetrina, vanità e commercio, « bluff » e opzioni. E' la politica lo spettacolo preferito dai contemporanei, scrive Philippe Noury sul Figaro, commentando lo spostamento d'un giorno della « vernice » per favorire il dibattito Barre-Mitterrand in televisione. E infatti la gente al cinema non ci va (il film che fino a un paio d'anni or sono otteneva un milione di « presenze » ora non arriva alle trecentomila) ma ingurgita televisione, di qualsivoglia grado alcoolico. Il cinema è morto, ripete ad ogni conferenza-stampa Maurice Bessy, il « primo ministro » del Festival: la tragedia greca durò quarant'anni, la celluloide è già durata per ottanta, che si vuole di più? Ma intanto gli « addetti » sperano, lavorano, sottoscrivono cambiali. Rivoluzionari compresi, naturalmente, abilissimi nel posare il maglione e i jeans per infilare lo smoking. Ecco infatti i « padri » ed anche i « figli » della contestazione italiana, che mandarono a ramengo Venezia e ora riconoscono bontà e bellezza in questa Cannes, dove osane sperare in una « palma», almeno in un petalo, suvvia. L'anno scorso un regista famoso, dopo aver presentato un film di cinque ore, tutto diviso in « buoni » a sinistra e « cattivi » a destra, dopo aver rilasciato dichiarazioni frementi per il possibile e futuribile mondo rivoluzionario, ha cacciato i fotografi dal panfilo, dove si era nascosto per brindare col solito champagne e divorare il solito caviale. Lo testimonia un fotoreporter di Milano, Walfrìdo Chiarini: e gli è facile paragonare la maggiore « onestà » dei lontanissimi protagonisti della « dolce vita » romana, rispetto a questi « bombardieri » ideologici. Che, a casa, cioè da noi, sputano nel piatto o mangiano con le dita, ma appena arrivano nel mini-principato della Croisette eccoli impeccabili con forchetta, coltello e allineamento ai canoni affaristici. Si fossero comportati così a Venezia, avremmo ancora un festival, vero? Tra lamentazioni e inganni — e grazie all'apparato molto preciso dell'alchimia francese, abilissima nel cuocere ricette funzionali — ecco tuttavia spuntare la nuova « anima » del Festival. Il '76 decretò la morte civile del cinema erotico e consacrò quello dedicato alla violenza, il '77 darà il via ad un filone-mercato intimista, nell'onda di nuovi crepuscoli umani, familiari, sociali. Un Festival «di riflessione», dice ancora Maurice Bessy, durante il quale ognuno farà i conti con le idee e con le banche. Ah, che nostalgia degli esordi, quando il primo Festival venne inaugurato. Era il 1° settembre del '39 e ignorando il gigantesco spettro di Hitler la Metro Goldwyn Mayer mandava a Cannes un transatlantico carico di Gary Cooper, George Raft, Norma Shearer. E poi sopraggiungono le nostalgie più vicine: le vetrate del «Cariton » travolte da turbe di ammiratori che volevano guardare e possibilmente toccare le ghiandole mammarie di Jayne Mansfield, le esibizioni dialettiche di Francois Truffaut che nel '58 cominciava già a predicare la morte del Festival, la contestazione contro la povera Brigitte Bardot (c'era la guerra in Algeria), e infine il rauco urlo di Johnny Weissmiiller, l'anno scorso, settantenne Tarzan riesumato dal freezer hollywoodiano per i sacri giochi del revival. Arriva Pelé? Quest'anno non ci sono divi: arriverà forse Pelé, per un film che racconta la sua storia dì pedate, la star unica è Alberto Sordi (che sa tenersi in disparte con molto garbo) e probabilmente sgambetteranno le ballerine del « Crazy Horse » parigino, anche loro diventate oggetto di pellicola. Certo saranno più eleganti delle donnacole che si vedono qui in giro o stravaccate nei caffè, mai più smeraldoni e sete, ma panni alla guerrigliera oppure alla contadinella, sacche schifose c cigarillo tra i denti. Il personaggio più divertente e interessante è un fotoreporter turco, Suavi Sonar, che cura personalmente le immagini ufficiali dello Scià, e che è appena rientrato dalla sanguinosa corte di Amin Dada. Dice: « Dovuto scappare da Amin. Lui pazzo, mi ama, si sveglia ogni mattino con idea nuova e folle. E poi, come fidarsi: suo nonno era gnamgnam ». Cioè un NiamNiam? « Ma no, proprio gnam-gnam: cannibalo. Giusto? ». E già si precipita a fermare una stangona americana sui due metri per scattarle un flash. E che dire di Marguerite Duras (già ne ha accennato ieri Stefano Reggiani, a proposito dei suoi vortici di fumo stampati sul Monde;? Adesso ha definito la nuova formula del « cinema per il cinema ». Come il vieto «l'arte per l'arte». Povero Vittorini che fu suo amico, e davanti a questi ghiribizzi sotto-crociani fuggirebbe nei boschi ululando. Boschi di Arcadia, naturalmente. Come sempre, i francesi ci amano. Per l'occasione particolare, per la presenza massiccia: Vittorio Gassman è figura circondata da un alone magico dopo il premio da lui vinto nel '75, Alberto Sordi è atteso con reverenza, Rossellini è detto il « serenissimo », un doge sacro nella mappa ribollente del cinema festivaliero: le palpebre socchiuse, il sorriso sottile, si diverte molto, discute con calma, dà retta a nessuno. E c'è anche un po' di brivido: per via d'una stranissima « banda » di turchi, che si avvicinano agli starids e con la scusa di esaminare la qualità di una pellicola, si impossessano delle « pizze » e le trafugano. Le gireranno nei villaggi patrii, al di fuori dei « circuiti » controllati. Lungo il marciapiede che unisce il palazzo del Festival all'hotel « Martinez » e dove tutti si pigiano e vanno su e giù con contorsioni da acrobata, le storielle, vere o inventate, che riguardano questa «banda della pizza», forniscono un po' di emozione. Inutile cercar volti noti: il cinema d'oggi li conta sulle dita dì una mano. Forse è un bene, ma sta di fatto che i puntigliosi cronisti addetti a riempire i paginonì dei rotocalchi faticano dieci ore al giorno per radunare aneddoti. I più bravi cercano vecchi cuochi, antichi barmen, arcaici portieri in livrea e si fanno ripetere le storie di Cary Grant, di un Rothschild, della Gina Lollobrìgida che, nel suo momento di gloria, accusò un crampo al polso per eccesso d'autografi. I defunti contano mille volte più dei vivi. Tribù e petrolio Ci si aggira per le « hall » degli alberghi, tra i tavolini dei caffè, ci si siede a quel particolare angolo che consente un punto d'osservazione strategico, e i discorsi tornano alla crisi del cinema. Anche gli americani, pur sulla cresta di un risveglio ben misurato tra affari e ispirazione artistica, tengono fermi i cordoni della borsa. Il cinema francese rischia di venire « irizzato », una parola che soltanto noi italiani possiamo capire fino in fondo. Le « scuole » più lontane vengono avanti facendo polvere ma denunciando anche una diversa salute (le finanziano i padroni del Terzo o Quarto Mondo). Dice infatti Ousmane Sembene, primo cineasta di tutte le « nouvelles vagues » africane: « Un giorno il cinema non sarà più Hollywood o Cinecittà o Parigi. Sarà un linguaggio africano, sarà il « modulo » dell'unità nelle nostre terre, dove solo il quindici per cento della gente legge qualcosa». E c'è una forte dose di logica, in questa ipotesi. Dopo i petro-dollari ci avvicineremo così all'età del cinema tribale. Forse è giusto. Cannes è ben lieta di compiere questi trent'anni di Festival. Ha dimostrato, con grazia e astuzia, con savoir faire e alto senso del commercio, che tutte le previsioni negative, tutte le dichiarazioni mortuarie sventolate anno dopo anno, possono venir rintuzzate dalla buona volontà, da una schietta coscienza artigianale. Se non salvi la bottega, come salverai la casa in cui abiti? C'è un cielo plumbeo, in questo giorno inaugurale. Toh, chi si vede: Mario Puzo, lo scrittore dì best-sellers mafiosi. Mastica un sigaro lungo mezzo metro alle dieci del mattino e ha una faccia buia, da orso grigio in perenne agguato. Si lascia fotografare borbottando una sola parola: «business». Più in là frenetiche creature con un impermeabilino giallo sperano di attirare l'attenzione di qualche fotografo. Poverette. I veri padroni del « décor » festivaliero, quello esteriore, sono sempre loro, i reporter con macchina fotografica. Ma risultano talmente corazzati da anni di cinismo che per scattare una immagine non gli bastano certo simili striminzite starlettes di passo. L'anno scorso, con Fred Astaire, era un'altra cosa; queste tipe qui, possono anche spogliarsi più svelte di Ridolini, chi le guarda? E la giostra continua: costosissima, naturalmente. Se proprio vuoi mangiare una bistecca, sii pronto a pagare un intero bue. Se ti siedi al caffè, tieni i soldi in mano, i camerieri pretendono il saldo immediato del conto o del conticino, potresti es¬ sere anche tu di quei tipi che bevono e se la squagliano approfittando del bailamme. Al confronto con altre annate, dobbiamo però riconoscere che questa trentesima edizione ha messo la sordina alle tipiche trombe fran¬ ciose: vi sono ormai tali problemi, anche sulla favolosa « Costa », che inneggiare per quindici giorni al gran baraccone cinematografico sarebbe di pessimo gusto. C'è la crisi dell'edilizia, anche se mostruosi condomini deturpano l'immediato retroterra da Nizza a Cannes, c'è Monaco che si ritiene circondata da una pericolosa banlieue rossa in fregola di sovversioni, c'è la. solita guerra nel Midi assetato d'acqua. Il cinema stia buono, sfavilli, ma non aumenti i grattacapi collettivi. Cerchi pure di evitare il fallimento, ma non aggiunga altri dolori sulla bilancia. Con un sorriso da astuto navigatore e buon gourmet è ancora il delegato generale del Festival, Maurice Bessy, a dire: «Sono gli stessi produttori a tremare. Uno di questi, stufo d'essere preso per una Cassandra, mi ha confidato: perché insisto, pur sapendo che siamo al giro finale? Perché non so far altro. Produrre film è il solo mestiere che conosco. Se " chiudo " non mi resta che aprire un negozio di profumi e affidarlo a mia moglie ». Alla gente che voleva « favole belle » e risate il mondo della celluloide ha consegnato ed imposto troppi orrori, troppa violenza, falsi erotismi, paure, bugie sociologiche. E così la carrozza dorata di Cenerentola sente che sta per battere la mezzanotte, sente che deve ritornare zucca. Ma per due settimane, a Cannes, vorrà ancora disegnare arabeschi, in illusione di eternità, ignorando il classico the end. Giovanni Arpino tsc