Alice crudele in terra di Francia di Maria Antonietta MacciocchiAlberto Cavallari

Alice crudele in terra di Francia Alice crudele in terra di Francia (Dal nostro corrispondente) Parigi, maggio. I giornali francesi discutono De la France, il grosso volume di Maria Antonietta Macciocchi pubblicato da poco. Alcuni lodano con bocca amara. Altri attaccano con risentimento. Ma è logico che sia cosi, dato che si tratta di un libro audace col quale l'autrice, che ha avuto molta fortuna a Parigi con De la Chine e Pour Gramsci, sapeva di mettere la sua fama in gioco. Viene in mente Malaparte: quando con Du coté de chez Proust e Dos Kapital sfidò un Paese che l'aveva esaltato e raccolse irritazione, rabbia, ferite. Maria Antonietta Macciocchi era molto amata in Francia. Corrispondente a Parigi delVUnità nel '62, deputatessa del partito comunista italiano, s'era buttata nel maggio '68 perdendo posto e titoli. Per i francesi era diventata l'italiana romantica, che predicava la rivoluzione, l'utopia, Gramsci, e che pagava di persona. Cosi la Macciocchi trovò una sua collocazione nel mondo culturale parigino: una cattedra a Vlncennes, collaborazioni su Le Monde. Nel '73 — quando il ministro dell'Interno Marcellin voleva espellerla come insegnante troppo sovversiva — manten¬ ne la cattedra perché studenti, giornali, intellettuali, insorsero a suo favore. Quest'anno, quando conquistò il dottorato alla Sorbona, le furono resi onori illimitati. Ma il vento è cambiato con De la France, libro d'attacco, feroce, che non risparmia nulla alla Francia, né alla sua sinistra, né ai suoi intellettuali di sinistra. Non si capisce tanto clamore offeso, dato che l'autrice onestamente avverte: «Cos'è questo libro? Nel guardare dove s'è fermata la Francia del '68, mi trovo a vivere una fase di distruzione che precede quella della costruzione. Nego che il combattimento della sinistra possa essere di tipo elettorale, quello per cui ogni cosa è coperta da una coltre anestetica, e ognuno tace camminando rasente ai muri. Infatti, la mia intuizione procede nel senso dell'esplosione». Il che, in parole povere, significa: «Non credo al partito comunista di Marchais; non credo alla logica di Mitterrand; non credo agli intellettuali arresi a questa logica; non credo alla morte del '68, come vogliono gl'intellettuali; il '68 esiste ancora, lo cerco dove lo trovo, negli operai, nei contadini, nelle femministe». Nell'operazione, ovviamen¬ te, saltano molte teste. Tutte quelle che un simile ragionamento possono far saltare: Marchais, capo di un apparato sordo, malgrado il comunismo «colore Francia»; Mitterrand, papa del riformismo; Althusser, oppositore di Marchais, ma anche opportunistico custode della propria autorità d'ideologo principe; Clavel e tutti gl'intellettuali sessantottardi finiti nello «spiritualismo»; Jean Daniel e Le Nouvel Observateur, organo della «sinistra al caviale», eccetera eccetera. Nello stesso tempo, la scrittrice viaggia, interroga operai, contadini, incide sul magnetofono ciò che le sembra preparare la prossima rivolta. In più, ironizza sulla Francia «stupida» che non capisce. Esiste questa Francia? E' «obbiettiva»? Domande simili, davanti a un libro simile, sono perfettamente inutili, come inutili sono i risentimenti per le deformazioni che, in questa chiave, fatalmente abbondano. Infatti, De la France è un monologo: il monologo autobiografico di una intellettuale del Sessantotto smarrita in un Paese dove le polveri sembrano bagnate e non scoppiano più. Come «specchio» appartiene alla famiglia di certi specchi i costruiti per deformare: al¬ lungando, ingrassando, riflettendo nasi lunghi, gambe storte. Meglio ancora, è lo specchio di Alice dove conta «l'envers du miroir». Perché chiedere l'immagine di un Paese se l'autrice stessa preferisce sostituire alla descrizione della Francia la descrizione «de sa phase de destructlon »? Ci si deve chiedere, piuttosto, se Alice abbia ragione nel procedere nel Paese delle meraviglie «de l'explosion» mentre l'eurocomunismo avanza con la sua triplice italo-franco-spagnola. Il suo monologo, infatti, potrebbe svolgersi ovunque, in Europa. Ma in questo genere di libri, che sconfinano nel messaggio personale, contano soprattutto due cose: la sincerità e la scrittura. Quanto alla sincerità, Alice '68 lo è fino alla disperazione. Quanto alla scrittura, allo stile, va detto che difficilmente un libro giocato sul sarcasmo, sul grottesco, sulla deformazione, ha raggiunto toni cosi acuti. Anche qui torna in mente Malaparte, la tradizione del «pamphlet» che tante volte il giornalismo ha portato avanti. E' fatale che Alice, maneggiando l'acido muriatico, se lo veda rilanciare addosso dai «mandarini » che l'applaudivano. Alberto Cavallari