Alla ricerca del "fogolar" perduto di Giovanni Arpino

Alla ricerca del "fogolar" perduto TERRE E GENTE DEL FRIULI RIVISITATE UN ANNO DOPO IL TERREMOTO Alla ricerca del "fogolar" perduto La zona colpita è ancora tutta segnata di frane e rovine; Osoppo sembra il calco di una città morta, a Gemona occorreranno fatiche immani solo per sgombrar macerie - Ma dovunque si lavora a ricostruire: "La vita va navigata, inutile far strilli" - I friulani non accettano il mondo provvisorio, eppur civile, delle baracche: devono rinascere paesi di pietra e case vere (Dal nostro inviato speciale) Udine, maggio. «E' una luna malata, gonfia, con quell'alone sinistro. Come allora. Come un anno fa. Mi fa paura», dice la « siora » Irma di San Daniele, già abitante in via Ciconi 14 ma ora alloggiata in una lindissima casetta prefabbricata. E aggiunge in un sospiro: « C'è stata afa anche oggi. Troppa. Per fortuna non si sentono cani abbaiare. Quanto ululavano, un anno fa, prima... ». E si interrompe, la parola « terremoto » non vuole lasciarsela scappar di bocca. Quattro stagioni sono trascorse, le lunghe calure di un'estate disperata, le insistenti piogge che in autunno filtravano per le tende, nelle roulottes. E poi le nevi, i geli dell'inverno. La pav:.. ha continuato a covare anche se strozzata, maciullata dalla forza delle speranze. La « siora » Irma si vergogna d'aver parlato così, le spiace che la « forza furlana » abbia denunciato un'incrinatura. Lentamente sorride finché questo sorriso diventa una risata larga, piena, per concludere: « Si vive per morire, anche se avrei preferito morire tra i miei comodi, dopo tante fatiche, l'allevar figli, lavorare. Beva qualcosa, "stellutis" ». Un viaggio in Friuli, un anno dopo il disastro, è prima di tutto un dovere. Nessuna immagine fotografica, nessun film, nessuna parola scritta possono « rendere » cosa il Friuli fu, cosa è rimasto in seguito alla tragedia. L'identità della vita friulana prima dell'« anno Domini 76 » è ormai leggenda da affidare ai bambini. L'intrico della vita e dei sentimenti nelle case contadine, nei villaggi di vicoli, piazzette, portici, osterie, chiese è fiaba così lontana da risultare intoccabile, forse non trasmissibile in un racconto pur minuzioso. C'è la creatura friulana emigrata che non vuole tornare mai più, non vuole vedere l'accaduto, e decide di trasferire nella memoria più segreta e gelosa il patrimonio umano, culturale, affettivo di ciò che « fu ». Ma è caso raro. C'è chi invece torna — sono circa due milioni i friulani sparsi a lavorare nel globo — per il tentativo azzardoso, magnifico, forse utopìstico, di restituire la fisionomia originaria a quel mondo, a quel « modello », magari attraverso trapianti forzati, fatiche immani, decenni di sacrificio. Riprendiamo il sentiero del calvario, da Magnano in Riviera a Gemona, da Verazone a Buia, da Osoppo a San Daniele. E' ancora un angolo di terra che mostra piaghe e muti orrori, dove i monti infernali, il San Simeone, il Brancot, offrono le unghiate biancastre del demonio sfuggito al sottosuolo: cicatrici franose che si lasciano guardare come monumenti dell'orrido. Ma il giorno è splendido, caldo, l'erba odora nei campi, i vigneti hanno foglie d'un verde tenerissimo, rami di glicine appaiono vezzosi ed ignari tra le rovine, le acque del Tagliamento scorrono persin troppo pacifiche. E il popolo furiano lava, stira, acconcia, smuove. Mancano uomini, mancano forse lavorative, i mezzi non sono certo eccezionali. Cerco di contare le ruspe, che non fioriscono in gran numero. Cerco di contare i camion che trasportano detriti: ce ne vorrebbe il triplo. La penuria di braccia si fa sentire, anche se l'appello furiano ha già trasmesso e continua a trasmettere richiami ai suoi figli tutt'intorno al Pianeta. Ed ecco le casette, le unità prefabbricate, le « baraccopoli », gli « insediamenti » di abitazioni allineate. Con tendine, gerani, vasi colorati, vetri lustri, tocchi di grazia puntigliosamente ripetuti, imitati, variati. Ti si spalancano le porte: su un muro è fissato il manifesto del paese « com'era », o una fotografia salvata e che ripete, nei suoi colori, un momento felice, il giorno delle nozze, della prima comunione. Ma nessuno parla delle cose perdute, di affetti o mobilia o dolori che avevano « fatto » un'esistenza. Nessuno vuole insistere su ciò che accadde l'anno scorso. Le vicende del chirurgo che operò per diciotto ore sul selciato di San Daniele? Il pianto degli slavi arrivati da Belgrado per dare una mano e che non vogliono più tornare a casa? Meglio tacere, lavorare. Meglio seppellirlo, quel dannato ieri, funesto e traditore. Da queste casette microscopiche, ma quasi offensive per la loro bamboleggiante leggiadria, da queste «unità» che ricordano i disegni infantili ispirati alle favole dei sette nani o di Pollicino, escono in pochi, appunto qualche vecchio, bambini, anziane donne che reggono il bucato da stendere all'aperto. Tutti sono al lavoro, nelle fabbriche, nei cantieri, poco lontano nei campi o nel paese distrutto a rimuovere travi, sassi, ad abbattere lacerti di muri pericolanti. Si lavora per un'idea, soprattutto. E l'idea consiste semplicemente in questo: ottime le casette, il furiano ringrazia, ma altro è il « fogolar ». Era tutto il « fogolar », deve tornare a essere, pietra mattoni orto cancello balcone stalla veranda cucina letto cantina tetto pergolato. E' la più antica ideolojia del mondo, concretizzata nelle cose, ma cose che sono oggetto e simbolo, utensile e difesa, mezzo e traguardo di dignità. Radicetissima nel mondo furiano la concezione del « fogolàr » è oggi ipotesi di futuro, obb'-.ttivo e miraggio per il quale devi ingobbire, sudare. La stessa grazia delle cosucce è solo un ectoplasma di quel mini-universo familiare che l'uomo porta dentro di sé da millenni, che nel contadino è caverna delle idee e rifugio vitale. Verdine o gialle, bianchissime o rosee, in legno o in materiali pressati, le cosucce stridono persino, paiono giocattoli messi lì, nottetempo, per distrarre la natura furlana, da un Babbo Natale frettoloso. I friulani le V inno accolte con sollievo, ringraziano, si sentono debitori, lustrano porte e appendono tendine, ma sanno di doversi sbrigare: un contadino non si può far zingaro, non può vivere in una dimensione da girovago, anc : se inchiodato. A Gemona gli insediamenti, le « baraccopoli », stanno allineati come soldatini usciti da una scatola. Anche qui, scarse ruspe. Una vecchia donna ramazza davanti alla sua celletta dove un gatto cerca di capire angoli e uscite. Canarini saltellano nella gabbia esposta al sole. L'osteria è di lamiera, lucida come una sposa. Ma lassù, al centro del paese dov'è rimasto il guscio vuoto dello stupendo duomo romanico, stridono le rondini, ormai padrone delle macerie. E' già cominciata la processione dei turisti carichi di rullini e di macchine fotografiche, tre pompieri li osservano con stupore. E ti senti riafferrato dal dolore, senti lo stomaco che si contrae. La chiesa franata Ci vorranno anni, dieci o più, perché Gemona possa soltanto ricordare un briciolo di se stessa, delle sue antiche armonie: sempreché no x venga ricostruita più a valle, per lasciare a rondini e topi e ortiche e turisti l'orma della sua beltà crollata. A qualcuno, tra non molto, verrà di guardarla come si scrutano le piramidi nelle foreste messicane: una « cosa » diversa da te, troppo lontana per farsi capire e per commuoverti. E invece è accaduta ai nostri fratelli, non ripeterlo sarebbe già tradimento. Un vecchio si è trascinato seggiola e bicchiere nello spicchio d'ombra offerto da un muro diroccato. Beve, salii'*-, tace. Ni>n ha le forze per aiutare un gruppetto di uomini che picconano, abbattono. Ciò che fu distrut- to in pochi secondi, costa fatiche immani per la demolizione, la carica e discarica coi camion. E altre fatiche costerà « schiacciare » queste pietre centenarie in un battuto dove si riprenderà a ricostruire. Un battuto di storie cancellate, di luoghi umani diventati ghiaia. Una cosa il vecchio dirà: « Chi non ha sentito e patito cosa significano cinquanta secondi di scosse, non capirà mai il Tempo. Quei secondi erano il Tempo. E il Tempo è di una lunghezza spaventosa ». A Buia si lavora, come dappertutto. Cartelli e frecce, stampati o a mano, indicano nuovi recapiti: il «pulisecco» si è stabilito all'incrocio Tale, il meccanico « sta lavorando nel sottoscala », l'acqua la si trova dopo aver seguito un itinerario di segnali che si ripetono lungo i muri. Mi chino e rubo una pietra sgretolatasi dal duomo di Buia: dovremmo tutti portare al collo una pietra furlana, come « memento » e ogni tanto alzarla, batterla sul proprio cranio. E' un cilicio civile. Ovunque si raccolgono elogi per Giuseppe Zamberletti, il commissario straordinario: è stato dappertutto, ha parlato con tutti, ha sbrigato « pratiche » immani. Un uomo venuto da Roma ha potuto godere della fiducia friulana, cosa non facile e — diciamolo pure — non prevedibile. Zamberletti ha dimostrato che molto, volendo, si può fare. I friulani hanno dimostrato e dimostrano che molto è possibile all'uomo se quest'uomo è cittadino vero. Gli estremisti di ogni tinta, venuti qui a partire dal maggio scorso, sono stati cacciati malamente. I partiti, vinti dal pudore, non hanno speculato o intrigato. I governanti, messi alla frusta, sono riusciti a governare. Ora, finita l'emergenza, toccherà alla Regione — come è stato ampiamente detto — che però è attesa trepidamente alla prova: è sperabile che la smania della carta bollata, la ricchezza di lavoro da distribuire non inceppino i meccanismi regionali, non creino ruggini, non facciano perdere il ritmo. ti A me fanno effetto i giovani », sospira la « siora » Irma di San Daniele: « Hanno meno convinzioni degli anziani, sono nati stanchi, nor. come nelle vostre città ma quasi. E vi sono anche fenomeni di assenteismo, che qui è bestemmia. Vi è anche qualche pecora nera furlana che si licenzia per ottenere il sussidio, centocinquantamila lire al mese. Ma teniamo a memoria i nomi e le facce di questi quattro disgraziati, nei paesi. Stia certo. Scansafatiche non ne vogliamo, qui ». E arriviamo a Osoppo. A settembre, dopo la tremenda scossa del giorno 15, il paese era un'unica maceria, tronchi di muri si alzavano pericolando verso il cielo come denti di una bestia uccisa dai fulmini. Ruspe e camion hanno spazzato tutto. Oggi tu cammini su un allucinante calco di città morta, di quelle che affiorano nelle profondità dei mari. E' uni Pompei di contadini po- | veri quella che sfila sotto le suole delle nostre scarpe sacrileghe. Perché puoi leggere nelle connessure del terreno la vita che fu, mille angoli dove nacque quella vita. Ecco l'ingresso di una minuscola trattoria: in un residuo di mosaico v'è un umile « salve ». Ecco dove portava questo corridoio, e queste piastrelle a fiori ti lasciano immaginare che lì era la stanza buona, là dietro il bagno, poi una porticina che dava sull'orto. Due vecchi stanno sbriciolando con la mazza il pavimento della chiesa. Tantova- j le ridurlo a ghiaia. Il campanile è piegato in due, fin dallo scorso maggio la punta si è rovesciata nel verde d'una rocca che si erge alle spalle della chiesa. E questa rocca ha fenditure come se le si fosse precipitata addosso dall'infinito una ghigliottina manovrata dai giganti. Non si dimentica « Scavando abbiamo trovato anche i crani e gli scheletri di quindici preti, seppelliti in chiesa cento o forse trecento anni fa », mi dice uno dei due vecchi: « Belli, quei crani, puliti come specchi. Neanche loro ha lasciato in pace il terremoto. Sa che compio sessantasette anni proprio il giorno 6, anniversario del disastro? Che roba nascere in una giornata simile. Mia madre avrebbe dovuto rinnegarmi, sessantasette anni fa ». Ride, sì rimette a mazzolare. E c'è una donna anziana. Margherita Forgiarmi, che poco più in là si china, si mette a grattare intorno a un fiore. Perché ha riconosciuto quel fiore, appena nato. Spunta infatti a poco a poco, tra le dita della donna, il vaso che rimase interrato, un vaso che era sulla finestra della sua cucina. Il fiore di una nuova primavera, eccolo. Margherita Forgiarini lo solleva, lo guarda. Ma non piange. Ha pianto tanto da avere le occhiaie d'un color rubino ormai incancellabile. Sorregge il fiore e lo guarda, accarezza il vasetto con le dita. «Facevo da mangiare qui», indica nel vuoto: « E la mia nipotino che mi sta sempre attaccata alle sottane se lo ricorda ancora. Se uno dice la parola terremoto, se uno fa ballare una sedia, lei trema. Ha undici anni, non dimenticherà mai più ». Si sfrega le occhiaie vizze e arrossate. Come tanti vecchi ritorna di continuo nel punto dov'era la sua casa. Non cerca più nulla. Guarda. Rimira la rozza planimetria tracciata sulla terra, quel disegno di piastrelle, le « sue » piastrelle. E, come gli altri vecchi, dopo una sosta reinforca la bicicletta e va a lavorare, cucinare, lavare nell'«insediamento sud», po. ) fuori Osoppo, tre file di casucce dai diversi colori, che stonano allegramente come i dadi dei primi giochi infantili. « Mi hanno anche dato una manza. Tedesca. Ho perso le bestie, i miei figli sono in fabbrica. Una manza mi basta. La credo tedesca perché aveva un cartellino appunto in tedesco legato a una zampa. Bella », racconta guardando in nessun posto, smuovendo i suoi due unici denti: « Mah. Noi friulani abbiamo costruito in Africa, in Venezuela, in Australia, io in famiglia ho sempre avuto uomini che andavano e venivano pei mari. Guarda un po' cosa doveva capitare non alle dighe, non ai grattacieli, non agli alberghi che abbiamo fatto nel mondo, ma qui. Se viene a trovarmi nella baracca, deve infilare la stradina che porta fino all'ultimo allineamento. E' una bella barocchetto, sembra di tornar bambini lì dentro. Ieri, qui credevo di veder spuntare un mestolo, gratto un po', invece niente. Guardi come cresce già l'erba. Un'altra primavera e Osoppo sarà come un prato, nessuno la vedrà più. Adesso devo andare sennò mia figlia brontola. Non vuole che venga qui, dice che poi di notte piango. Ma come faccio a piangere. Neanche mi pestassero coi bastoni piangerei più. Tante grazie, signore». Decoro e pudore Sull'ultimo muro rimasto ad Osoppo c'è una scritta. Dice: « Fasin un monutnent ai Vigli dal fùc ». E' il ringraziamento per il lavoro dei pompieri, gente che sbalordì persino gli ingegneri tedeschi accorsi per dare una mano a metter su le prime baracche. Domani cadrà anche quel muro, strappato da qualche ruspa, ma è proprio quella frase a farmi scoprire, più tardi, la pulizia delle strade a Udine. Giro in l~ngo e in largo, troverò solo quattro scritte disegnate con lo « spray », e sembrano sconciature immonde nella loro solitudine. Perché bisogna aver conosciuto cos'è la fatica di erigerlo, un muro, e cosa sono i dolori e i sudori per abbatterlo quando ormai è rovinato, sempre quello stesso muro: allora lo rispetti, non lo fai diventare un deposito di sillabe idiote. Va a rimuover pietre in Friuli, o testa di rapa di ragazzo-spray: capirai finalmente cosa vale un intonaco, lo ripulirai con la lingua. Sta venendo sera, un uomo arriva in bicicletta, scende e subito comincia a falciar erba a poca distanza dalla chiesa di Osoppo. « Per i conigli, ma anche perché ho preso l'abitudine di venir qui dopo il lavoro », spiega senza smettere, bilanciando colpo su colpo: « Una volta finito, fumo una sigaretta e poi vado in baracca. Meglio qui che all'osteria ». Non vuol dire altro. Poi si ferma, appoggia il gomito sulla testa della falce all'impiedi, guarda intorno. Ha gli occhi stretti come fessure, la barba dura di tre giorni. Annuisce un paio di volte al cielo, al silenzio, al vuoto, come fanno i contadini anche di fronte alla grandine, al dolore da accettare. So perché non parla, la sua esperienza non è spartibile con un estraneo, è una « cosa » che ormai la si può spezzare solo con chi ha pa| tito altrettante vicende. Saliamo a San Daniele. Più alte del campanile, tre gru. Molto è già stato fatto, qualcuno ha già deciso di rientrare in casa. Lo fa di nascosto, pur avendo la baracca attrezzata e addobbata. Racconta la « siora » Irma: « Finché non ho avuto la baracca, dormivo qui, nel retro della trattoria. Con paura, non dico di no, ma non mi sono mai mossa di qui. Adesso, in quei due metri della prefabbricata, mi sembra di essere una bambola. Davvero ». Ride, ruota su se stessa. E' una gigantessa, e certo nel cubicolo del suo «insediamento» deve provare chissà quante ironie di sé. «Ma così si è anche più vicini alla natura. Farà bene, no? Si sentono gli uccelli all'alba, si sentono i cani, anzi si spera di non sentirli. La vita va navigata, inutile far strilli, inutile far baruffe ». V'è un silenzio immenso, dopo il tramonto. Le finestrini delle « baraccopoli » mandano brilla da presepe. Televisori friggono e sussurrano, a basso volume per non disturbare i vicini. Donne si affacciano chiamando i bambini, uomini fanno crocchio sui sentieri talora frettolosa¬ mente asfaltati e odorosi di co'rame. Qualcuno riannoda dizeorsi quasi ilari, ricordando certi soldati pugliesi: avevano chiesto acqua, dopo aver sgomberato macerie e macerie, e davanti ai bicchieri sospettavano. Un'annusata prima di bere. Perché il giorno avanti avevano ingollato da una bottiglia, era grappa violenta, per poco uno non si strozzava. Bravi ragazzi non abituati, sorride l'uomo per finire. Impressiona la ricerca, la difesa della decenza. Non uno che si faccia la barba all'aperto, non uno che esca di casa non acconciato, non una traccia d'immondezza. Civiltà e pudore sono i grandi puntelli invisibili di questi « insediamenti », prima e lunga tappa verso il « fogolàr ». E' notte, i presepi spro¬ fondano nel buio, le finestrini si chiudono ad una ad una. E ancora di più ti coglie il dolore per questa « vita provvisoria », così accettata, così decisa a costituire un trampolino. L'idea del « fogolàr » sta nei cuscini dei letti, a quest'ora, nei discorsi sussurrati e che riguardano il domani, nelle ipotesi che si inseguono prima del sonno, ipotesi di mattoni, legname, un prestito, una mucca, una vigne, un recinto. Forse una donna ha ancora qualche lacrima. E' possibile. Ma il marito le dirà « Tas-te », e lei tacerà. Bisogna saperlo sognare. ". Friuli di domani. Questo di oggi è un purgatorio che tutti stanno attraversando ed accettano — e ringraziano, sempre: quelle casucce fanno parte di un miracolo vero — consapevolmente: però con lo sguardo che punta lontano, al « cuore antico » da ritrovare. Bisogna sognarlo con forza il Friuli di domani e lavorare con lui, per lui. Quello di oggi è solo un cantiere, un progetto, dove sarebbe spaventoso perdere anche un minuto di tempo. C'è qualcosa che fruscia contro un muro smozzicato. Dopo un po' esce un gatto. Timidamente si avvicina, si accuccia, si lascia accarezzare. E' magro e guarda con occhi verdissimi luminosi. Non se ne va. Resta a scrut rei in solitudine, con complicità randagia, come se fossimo dei fantasmi a lui familiari. Quando ci allontaniamo trotterella un po' dietro di noi, poi, in un balzo scompare. Dormono tutti, da Gemona a Osoppo a Buia. Il silenzio è infinito, la luna in cielo è piena medaglia d'oro vecchio, offeso da qualche ruga. Non ha alone, non dovrebbe essere cattiva. Dolce Friuli, che esempio ci hai dato, continui a darci. Se v'è un regno dei Cieli, certo h : un luogo segreto tra i suoi misteriosi confini, un luogo che ti assomiglia, un « fogolàr » che ti rispecchia. Giovanni Arpino Gemona. Giochi tra rovine e baracche Venzone. Padre e figlio ricostruiscono la vecchia casa (Foto P. De Marchis - « La Stampa »)

Persone citate: De Marchis, Donne, Giuseppe Zamberletti, Margherita Forgiarini, Pollicino, Vigli, Zamberletti