Lavoro: il suo costo il suo sfruttamento di Mario Salvatorelli

Lavoro: il suo costo il suo sfruttamento UN CORSIVO DE "L'UNITÀ Lavoro: il suo costo il suo sfruttamento Nell'ampio dibattito in corso in Italia sulla necessità di ridurre il costo del lavoro, c'è chi non perde occasione per conlonderc le carte, per barare al gioco, facendo finta di credere — se ci crede veramente, sarebbe bene tornasse a scuola, se mai c'è stato — che per costo del lavoro si intenda la busta paga, quindi ogni proposta per diminuirlo sia un attentato alla condizione sociale ed economica del lavoratore. Ultimo esempio, in ordine di tempo, di questo barare al gioco l'ho letto ieri su l'Unità, in un corsivo basso di prima pagina, anonimo. Il titolo personalizza la polemica, diretta contro Umberto Agnelli, quale rappresentante di quegli industriali che parlano di rivalutare il lavoro manuale, mentre per decenni hanno elargito « salari vergognosamente bassi agli operai », fino al « famigerato » (l'aggettivo è dell'anonimo, non mio) autunno caldo, e oggi ancora recitano « (/itotidiane litanie sul costo del lavoro troppo alto e ila ridurre ». Tutti sanno la differenza che passa tra buste paga e costo del lavoro, e tra questo nel suo complesso — il cosiddetto monte paghe dei lavoratori dipendenti — e il costo del lavoro per unità di prodotto, cioè quella parte del costo di produzione di un bene, o di un servizio, costituita dal costo del lavoro di chi lo produce. Ma prima di tornare su questa differenza, vorrei per un attimo fare un passo indietro. ■'rendiamo il 1956, un anno che cade nel pieno di auei decenni di « sfruttamento » (e che in parte lo sono stati, non c'è dubbio), ma durante i quali, si può anche ricordarlo senza per questo — almeno lo spero — essere definiti sfruttatori (caso mai, ero dall'altra parte), l'Italia, uscita a pezzi dalla guerre, iniziò e petto a termine la sua ricostruzione, rinnovò e aumentò i suoi impianti, si trasformò da paese agricolo in paese industriale tra i primi otto del mondo, assorbendo 3 milioni e mezzo di ex lavoratori dei campi, e per un certo periodo ebbe nella lira una delle monete più stabili di lutto l'Occidente. Nel 1956, fatto eguale a 1 il livello delle paghe dell'industria nel 1938, assegni familiari compresi, quelle degli operai erano salite a 87,38, quelle degli impiegati a 66,62 (dati dell'istat). E' ovvio che i primi erano più bassi già in partenza, quindi era giusto fossero rivalutati di più. Ma è anche vero che non vi fu una politica deliberatamente rivolta contro il lavoro manuale. E a Torino, che sarebbe stata in testa nello sfruttamento, secondo l'anonimo de l'Unità, il salario lordo minimo giornaliero dell'operaio metalmeccanico, con 1592 lire, era superato in Italia solo da quello di Milano, con 1626 lire, mentre era ben più alto delle 1441 lire di Bologna o delle 1224 di Catania (allora c'erano ancora le « gabbie » salariali, se ne ricorda il nostro corsivista?). Salari ancora bassi, ma non si dimentichi che lo erano anche nelle altre categorie. Non c'è, infatti, un abisso tale da provocare disaffezione e svalutazione del lavoro manuale, tra le 3940.000 lire mensili lorde dell'operaio specializzato e le 37.228 dello stipendio dell'impiegato di 3-A categoria B e neppure le 43.856 dell'impiegato di 3-A categoria A. E, prima di chiudere il discorso sulle condizioni intollerabili che sarebbero alla base della disaffezione dal lavoro manuale e della corsa all'impiego dei giovani d'oggi, vorrei aggiungere che negli ultimi trent'anni l'evoluzione delle condizioni ambientali del lavoro in ufficio, dell'impiego « intellettuale », non è paragonabile, neppure lontanamente, al miglioramento che si è avuto nelle condizioni del lavoro in fabbrica, ma¬ nuale. E' sempre il «vero lavoro», come mi disse un giorno un collega, con il quale mi lamentavo del mio, ma oggi solo una minoranza e ancora addetta ai lavori pesanti, e persino negl'impianti siderurgici ormai i camici bianchi prevalgono sulle tute blu. Anche sotto questo riguardo si potrà dire che il lavoro d'ufficio già un tempo si svolgeva in buone condizioni ambientali, ed è vero, ma non per questo si deve disconoscere quanto è avvenuto, dentro e fuori i cancelli, per rendere più accettabile il lavoro in fabbrica. Vorrei ora tornare alla differenza tra costo del lavoro, come l'intende il corsivista anonimo, e il costo del lavoro come l'intendono tutti coloro che parlano di ridurlo. Il « mini-patto sociale » firmato a fine gennaio tra Confindustria e sindacati, è preceduto da due « dichiarazioni » separate delle parti in causa. In quella della Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil si legge che « il movimento sindacale si è posto consapevolmente il problema del costo del lavoro e della produttività ». E nel testo dell'accordo comune, si afferma all'inizio che « la federazione sindacale unitaria e la Confindustria, di fronte ai problemi della crisi economica in alto, nell'intento di accrescere la competitività del sistema produttivo, sui piano interno e internazionale... hanno convenuto quanto segue... ». Concludo le citazioni con alcune frasi pronunciate dai deputati comunisti Eugenio Peggio e Luciano Barca al convegno del Cespe - Centro studi di politica economica del pei (Roma, Teatro Eliseo, 11 gennaio 1977). Peggio: «Non è lecito sottovalutare il peso dell'aumento del costo del lavoro per unità di prodotto nel determinare i processi inflazionistici », cos'i come non è lecito, aggiunge Peggio, ed ha perfettamente ragione, « sopravvalutarne l'importanza, sino al punto da considerarlo preminente o quasi unico ». Barca: « // rischio di una caduta di produttività e dell'accentuarsi delle caratteristiche assistenziali di un sistema divenuto incapace di utilizzare in modo produttivo la forza lavoro di cui dispone è un rischio reale che stiamo già vivendo ». E' vero che l'Unità in edizione domenicale è sempre un po' più a sinistra del solito e un po' meno favorevole a quel rilancio dell'impresa e del suo ruolo nell'economia italiana, che gli esponenti comunisti sostengono durante la settimana, ma non mi sembra che il riposo festivo debba giustificare la caduta in letargo di tanti buoni propositi. Il nostro corsivista, invece, dimostra che questo tipo di trasformismo è possibile. Infatti, riportando una parte dell'ultimo bilancio Fiat, commenta, con evidente intenzione polemica e mal riuscita ironia, che sono stati destinati ad ammortamenti « ben » 275,7 miliardi di lire. Ma con che cosa vorrebbe rinnovare gl'impianti, e assicurare cosi. Ira l'altro, l'occupazione futura dei 187.000 dipendenti Fiat? Con le noccioline? E quando critica il tatto che l'occupazione sia scesa nella Fiat da 189.000 a 187.000 dipendenti, non si rende conto che di fronte alla politica punitiva condotta per anni in Italia contro l'automobile, di fronte alla benzina a 500 lire, una riduzione dell'I.05 per cento dell'occupazione è un esempio di abile conduzione aziendale e un allo di fiducia nel futuro? Quanto, infine, al dividendo — pari all'8.3 per cento dell'attuale quotazione del titolo in Borsa — e all'accrescimento delle riserve, non c'è che da invitare il nostro anonimo corsivista a farsi spiegare dagli onorevoli Barca e Peggio che cosa significhi la remunerazione del capitale per un migliore impiego del risparmio in Italia, per l'avvenire delle aziende, per quel processo di accumulazione delle risorse, senza il quale potremo presto metlere. o rimettere, la vanga in spalla, c avviarci cantando a zappare la terra. Mario Salvatorelli

Persone citate: Barca, Eugenio Peggio, Luciano Barca, Umberto Agnelli

Luoghi citati: Bologna, Catania, Italia, Milano, Roma, Torino