Metti una sera a cena... la soja di Emio Donaggio

Metti una sera a cena... la soja Metti una sera a cena... la soja Un nuovo modo di mangiare - Le ricette oggi in voga in casa e anche nei ristoranti della città «Padre nostro ohe sei in Washington, dà oggi il nostro propionato di calcio quotidiano, il diacetato monogliceride di sodio, il bromuro di potassio, il fosfato di calcio, la cloramina T monobasica, il solfato di potassio alluminio, il benzoato di sodio, l'idrossianisole butilato, il mono-iso-propil citrato, l'axeroftol e il calciferolo. Aggiungere un po' di farina e di sale, e mescolare. Così sia». L'ho letto in un romanzo di John Brunner scritto nel '72, forse il più crudele che sia stato immaginato sul futuro dell'umanità. Mi aveva divertito. Fino a ieri. Fino a ieri, quando verso le 13,30 sono entrato in un lussuoso ristorante del centro nel giorno di chiusura e ho trovato una tavola imbandita solo per me e qualche Cordon Bleu o Accademico della cucina, tutta gente che magari non sa farsi un uovo, ma che individua subito nel pezzemolo eccessivo il nemico dei funghi trifolati. Non lo doveva sapere nessuno, ma era un pranzo da re a favore della fame nel mondo. Con l'antipasto, ci hanno servito la vodka ghiacciata. Paté de fois gras e una mousse di carne alla tartara. I primi commenti: buonissima, stupefacente, incredibile. Da qui comincia l'incubo che non mi lascierà più fino alla fine dei miei giorni, vittima del «cavallo di soya». Perché tutto, proprio tutto il cibo che ci è stato ammannito, era latto con la soya. Un mostro che immagino grigiastro e tentacolare. Assorbe come un camaleonte allevato da uno scienziato pazzo discendente di Carnacina, ogni possibile sapore. Il flan di aragosta, odora addirittura di mare. Mi assicurano che, portando all'orecchio qualche guscio di seme opportunamente trattato, ebbene, si sentono le onde. In un delirio crescente, ho gustato raffinati piatti tipici piemontesi, ho visto sezionare un arrosto di tacchino così abilmente scolpito dal cuoco che mi ha fatto poi dubitare dei carciofi, possibile opera di un miniaturista. Non mi ha risparmiato la minestra, tipica zuppa tirolese, quella con la pallina di pane che, anche qui, al mio palato suonava come nella realtà di stracci bagnati. Non ho avuto freni sul dolce, una delicata quanto fasulla mousse calda di cioccolato. Nel mio delirio di rovina, ho fatto il bis. Confesso che, dalla seconda portata, degli altri commensali mi giungevano solo più brandelli di conversazione. Ma, ne sono disperatamente certo, gli idrocarburi avevano sostituito le contese sulle salse di agio selvatico, il mono-iso-propil citrato trionfava sulla moutarde au vin-agre selon les anciennes traditions bourguignonnes. Così ho cominciato a confondere la realtà con quel libro di Brunner. Notizie di un telegiornale inventato: «... colpevole di aver usato olio vegetale brominato... nonostante la tesi della difesa: non risulta alcun danno alle persone che abbiano mangiato il cibo in questione, la società è stata multata...». Gli altri ce l'avevano con me ed avevano ragione. La soya fa bene, è nutriente, può risolvere tutti i probemi soddisfacendo anche il palato. Erano desolati probabilmente osaranno costretti a piazzarla a tipi come me, nelle refezioni scolastiche, in fabbrica, al supermarket, senza dircelo. Ed ecco il «cavallo di soya», come l'ha definito Ugo Zatte rin. Ed io vi avverto, non accettate un invito a pranzo in casa sua, perché la moglie ha già sfornato un delizioso spezzatino di soya ad alcuni amici e loro l'hanno preso per buono. Un rudere, ecco quello che sono. Perché dato che la soya fa bene, la mettono negli omogeneizzati per neonati così memorizzano il gusto e la nuova generazione non avrà problemi. Io che ho memorizzato latte e poi pasta e fagioli e bagnacauda, sono rovinato. Penso ad una catena di montaggio dove lo chef impugna gli stampini con la stessa solennità dei bimbi che giocano sulla spiaggia con la sabbia bagnata. E forma fagioli, patate, aragoste. Questo duttile mostro appiattisce le sue proteine in immagine di costate, le gonfia nelle coscie del tacchino, si contorce nello spezzato della lepre in civèt. Mi sono trascinato a casa con la tristezza del superstite, con nile dì barattoli e tubetti che sostituivano le ceste dei verdurai che incontravo. Ho trovato certezza nel negozio di rose e orchidee di plastica, in un altro di borse di sky. Ho ripreso in mano il libro. Lo chiude Milton e il primo verso è il titolo: «Il gregge alza la testa, ed è digiuno, / i.el vento aspira una nebbia mefi tica, ff marcio dentro, colpito dal contagio». Poi c'è ancora una pagina, ma sono righe co me da un quaderno di scuola, ancora da riempire. Emio Donaggio

Persone citate: Bleu, Brunner, Carnacina, John Brunner, Ugo Zatte

Luoghi citati: Washington