Gesù, l'apocrifo televisivo di Raniero La Valle

Gesù, l'apocrifo televisivo LA VALLE CRITICA IL VANGELO DI ZEFFIRELLI Gesù, l'apocrifo televisivo Ora che è concluso, si può parlare del ciclo televisivo del Gesù di Zeffirelli senza essere accusati di voler distogliere dal video folle assetate di verità. Il mio giudizio è che una sola parola del Vangelo esce clamorosamente confermata e annunciata da questo Gesù televisivo, ed è la parola che dice: « Beati coloro che non hanno visto ». Sulle strade di Gerico, beati erano i ciechi i quali, proprio perché ciechi, più agevolmente potevano oltrepassare l'opacità del segno rappresentato dalla carne di Gesù, e vedere in lui il figlio di David e la trasparenza di Dio; questa era la fede che li salvava e per la quale Gesù, guarendoli, non faceva che aprire occhi che già avevano visto; quanto più beati sono dunque ai nostri giorni coloro che non hanno avuto gli occhi ingombri dal rozzo segno del policromo Gesù televisivo. Diceva San Paolo ai Greci ed ai Romani: « Noi camminiamo per fede, non per -isione »; « In speranza siamo stati salvati, ma la speranza che si vede non è speranza: difatti, ciò che uno vede, può anche sperarlo? ». Ora, se pensassimo che il Gesù di Zeffirelli abbia qualche cosa a che fare con il Gesù di Nazareth, non avremmo più niente da sperare e più niente da credere: difatti, che cosa avremmo da sperare da un esorcista, e come potremmo credere in uno stregone? Perciò questo apocrifo televisivo è stata tra le prove più gravi a cui sia stata sottoposta la fede, a livello di massa, in questi tempi già cosi irreligiosi; più grave di quella derivante dalle s>iìde atee o apertamente secolarizzatrici, perché per di più mistificante; secolarizza col sacro, e attacca la fede con l'imprimatur. Nulla di paragonabile avviene con la giocosa irriverenza di Fo, che potrà irritare, ma non certo turbare la fede; ben più grave è avere imposto, a milioni di uomini, un Gesù irriconoscibile rispetto al Cristo della loro fede, rispetto al Cristo di cui si sono messi alla sequela e per il quale sono disposti a dare, e molti di fatto danno, la propria vita. Del resto anche questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture, secondo le quali occorreva che il Figlio dell'uomo « fosse dato nelle mani degli uomini »; era proprio questo il rischio caratteristico e l'offerta suprema dell'incarnazione, di un Dio che annientava se stesso e si faceva simile agli uomini, fino a mettersi come loro nelle mani di giudici e sacerdoti, di sequestratori e di aguzzini, di censori e di manipolatori; ed è proprio per questo che lo sentiamo fratello. Gesù di Nazareth non esce dalle mani dei registi, dei produttori, degli attori, dei truccatori, dei sarti del carosello televisivo, meno sfigurato di quanto sia uscito dalle mani del Sinedrio e di Pilato, dalle mani di chi già una volta ne fece spettacolo, mettendogli addosso un mantello rosso ed esibendolo alla folla per adularla. Non ne esce meglio, ed anzi peggio; perché almeno Pilato, i grandi sacerdoti, le turbe di allora lo sentirono come un'alternativa, gli imprenditori e le troupes di oggi lo hanno usato come un belletto. Sia chiaro che quello che si discute qui non è la cristologìa degli sceneggiatori, ammesso mai che ne abbiano una. L'insidia della trasposizione televisiva è ben maggiore di quella derivante da una cattiva cristologia. In molti modi e in diverse forme il Cristo è stato sentito e rappresentato nel corso delle generazioni; la cristologia delle icone greche non è la cristologia del Masaccio o del Beato Angelico, quella dei misteri medioevali non è la cristologia di Dostoievski, né Cristo è lo stesso per Pasolini, per Bunuel o per Jesus Christ Superstar, per comprendere esempi assai lontani; i confini dell'arte che si è misurata col Cristo sono assai ampi, e nessuno contesta la legittimità di sempre nuove letture personali della vicenda del Nazareno, di confronti anche drammatici col Cristo (perché ogni uomo a un certo punto lotte con l'angelo, come Giacobbe), e della espressione che a tutto ciò viene data nel linguaggio simbolico dell'arte, che è un linguaggio mai chiuso in sé, ma ohe sempre rinvia a qualcosa che è oltre di sé: e per questo non è usurpatore ed è universale. Ma questo Gesù televisivo si compiace di non dover nulla alla fantasia, alla passione interiore, a un atteggiamento personale di attrazione o di ripulsa; è uno « sceneggiato », un Vangelo fotografato a colori, un racconto « oggettivo », a « episodi », con pretese di verismo, di documento, di fedeltà storica (è fotografato anche il Risorto, che pur fu riconosciuto dai discepoli solo allo spezzare del pane o in forza, come accadde a Giovanni, di uno speciale intuito di amore); è dunque un prodotto che non rinvia a nulla oltre di sé, perché tutto è descritto, raccontato, visualizzato, messo in scena (« osceno »); per questo è micidiale, tanto più che approfitta della grande illusione del realismo televisivo, che ti fa credere di partecipare a un evento, senza mediazioni, direttamente, mentre non arrivi nemmeno ad essere sfiorato dal sospetto del suo vero significato. Resta il fatto del successo, della prova che sarebbe offerta della disponibilità delle masse al « messaggio » religioso. Disertano i pulpiti, ma affollano le platee. Non so quanto ci sia da compiacersene. Potrebbe essere un segno che quando vien meno la predicazione, si prende per buono il fumetto, quando manca il pane, si prende il surrogato; ma si perde il gusto, e non si sa più riconoscere il pane. In un famoso articolo intitolato « La metamorfosi del clero », Ivan Illich, l'autore della Nemesi medica, allora alle prime battute della sua critica alle istituzioni superstrutturate, paragonava la Chiesa alla General Motors. Se la Chiesa fosse la General Motors, senza dubbio il Gesù di Zeffirelli si potrebbe considerare un successo. Correndo tempi di qualche difficoltà per la ditta, si è avuta infatti una eccezionale pubblicità per il suo fondatore; per di più, ciò che è particolarmente geniale, si è riusciti a consorziare nell'operazione anche la concorrenza (ebrei e musulmani), al solo prezzo di qualche contrattata amputazione del messaggio (forse è dovuta a queste calcolate riduzione al minimo comune di un pubblico eterogeneo, che non si sente dire dai grandi sacerdoti: « Non abbiamo altro re che Cesare », o che si sia tolta la parola di bocca a Gesù quando stava per dire: « E su queste pietra fonderò la mia Chiesa»). Anche dalla parte di Mammona le cose non sono andate male, perché se è vero che l'investimento è stato molto alto, è anche vero che l'ammortamento si preannuncia rapido e la produttività più che soddisfacente. Ma appunto, la Chiesa non è la General Mo¬ tors. Raniero La Valle

Luoghi citati: Gerico, San Paolo