Il collasso italiano di Mario Deaglio

Il collasso italiano NON E DETTO CHE CI SARA Il collasso italiano Chi si occupa di cose italiane è spesso preso da un senso di angoscia: sotto la spinta, aggressiva e continua, dei fatti di cronaca, i quadri di riferimento vacillano, le ideologie forniscono sempre meno una qualche chiave interpretativa che consenta di collocare logicamente gli avvenimenti, di individuare tendenze e problemi. La realtà si fa sfuggente e subentra un senso di vuoto, da cui deriva l'aspettativa di una grande crisi, improvvisa, risolutrice, chiarificatrice: l'attesa del « colpo di Stato » negli Anni Sessanta, quella di un collasso finale del sistema economico negli Anni Settanta, sono esempi di una simile distorsione culturale. Tutti presi da un'attualità spasmodica, spesso gonfiata dai mezzi d'informazione, non ci accorgiamo che, in realtà, i nostri mali sono più profondi e meno sensazionali, scavano un poco tutti i giorni, rischiando di devitalizzare il Paese, di togliergli la capacità di reagire e di progredire. Per contro, anche gli anticorpi a questi mali sono molto profondi, lontani dalla cronaca: la loro presenza spiega perché, sia pure in maniera zoppicante, il Paese vada avanti e la grande crisi non giunga mai. Un simile invito a guardare nel profondo della realtà italiana si ricava dal decimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese, da poco pubblicato dal Censis. Il Censis è una delle pochissime istituzioni italiane di ricerca che riesca ad uscire dallo specialismo e che realizzi sintesi multidisciplinari. Con una raffinata capacità di collocare in un unico discorso coerente i dati statistici più disparati, il Censis è venuto costruendo un'immagine « alternativa » della realtà italiana, che ha acquistato crescente autorevolezza e costituisce forse lo strumento più valido per capire come sia fatto, oggi, questo Paese. Il Censis per primo ha parlato di « lavoro nero », ha messo in luce la perdurante, e forse crescente, importanza delle famiglie, entro le quali si ricompongono i vari «spezzoni» di reddito dei singoli individui. Ha gettato nuova luce sulle complessità della società italiana, dove non ci sono ruoli fissi per nessuno e finiamo per avere tutti qualche briciola di privilegio, mentre subiamo i privilegi altrui, per essere lavoratori dipendenti nel primo lavoro e magari lavoratori indipendenti in seconde o terze attività, per risultare tutti un po' sfruttati ed un po' sfruttatori. Questo modello alternativo della realtà italiana presenta due fenomeni contraddittori: un'esplosione di vitalità a livello individuale e famigliare ed una perdita di tensione vitale a livelli più elevati. Il miracolo in Italia è dappertutto, afferma il rapporto del Censis, nel senso che sì realizza nella capacità di tutti di difendere e sviluppare il proprio livello di vita. Infatti, in questi anni di « crisi » sono stati ben pochi gli italiani che hanno visto diminuire il proprio « standard » di consumi, mentre sono piuttosto numerosi, a tutti i livelli di reddito, coloro che l'hanno visto aumentare in maniera considerevole. Questo « miracolo » però, secondo il Censis, è stato pagato con il rinchiudersi degli italiani nel loro « bozzolo », appunto individuale e famigliare, al riparo dai fattacci di cronaca, dalle complicazioni della politica, dalle tensioni della vita culturale. Ai nuovi strumenti di democrazia, nella scuola e nei quartieri, gli italiani partecipano poco, e sempre di meno; al di là della retorica, i lavoratori danno un appoggio sempre minore alle grandi confederazioni sindacali, mentre le rivendicazioni più sentite, e che ottengono il più elevato grado di coinvolgimento, sono quelle di piccoli gruppi che difendono interessi immediati, dai piloti d'aereo ai portantini d'ospedale. L'Italia sembra ripiegarsi su di sé anche perché diminuisce il tasso di natalità, i matrimoni toccano un minimo storico, gli emigranti ritornano in patria; si manifesta la tendenza ad un opaco e generalizzato benessere in cui la maggioranza degli italiani afferma di essere moderatamente soddisfatta della propria casa e del proprio lavoro. I grandi « aggregati » della società (grandi comuni e grandi imprese, grandi sindacati e grandi enti pubblici) finiscono, in questa situazione, per andare in crisi. Quest'analisi, che appare sostanzialmente corretta, rischia tuttavia di mancare il segno, forse per troppo suc¬ cesso. Il Censis ha trovato una chiave interpretativa va¬ lida ma corre il rischio di farne un uso eccessivo, di considerare universale questa validità. Pur con le sue numerose particolarità, infatti, l'Italia non può essere studiata come se fosse separata da quel che le capita intorno. C'è inoltre il rischio di dar troppa importanza agli « interstizi » della nostra società, così come qualche anno fa se ne dava troppo poca, perdendosi in un labirinto inestricabile e trascurando alcune trasformazioni importanti che stanno avvenendo molto più vicino alla superficie, nel « Paese ufficiale ». In questa diversa ottica, l'ansia, che il Censis manifesta, per l'ingovernabilità del Paese, e la necessità di verifiche delle prospettive future assumono una diversa connotazione. La crisi delle città, l'insufficienza dell'amministrazione pubblica, la caduta dei profitti delle grandi imprese, la difficoltà dei partiti e sindacati tradizionali a canalizzare il consenso sono fenomeni mondiali, che sembrano caratterizzare una fase dell'evoluzione della società industriale, nella quale s'inquadra anche la crisi italiana. Sarebbe un atto di superbia il crederci cosi straordinari, il pensare che l'Italia sia un caso unico al mondo. Né, d'altro canto, si deve trascurare un insieme di elementi positivi di questi ultimi anni. Pur nella generale caduta di investimenti, l'industria italiana ha mantenuto un livello tecnologico soddisfacente, che le permette oggi di competere con successo sui nuovi mercati internazionali. Questa stessa industria ha dato il via ad un'imponente riorganizzazione al suo interno. Mentre si rileva lo sfacelo delle Università sarebbe anche giusto ricordare che in questi stessi anni sono sorte o si sono fortemente sviluppate centinaia di istituzioni di ricerca, tra cui lo stesso Censis, che hanno dato e stanno dando contributi originali ed importanti nei campi più disparati. Lo stesso fenomeno della terziarizzazione, cui si dà quasi sempre un'interpre fazione negativa, rappresenta, per certi aspetti, l'evoluzione naturale di una società che ha concentrato per molto tempc le sue energie nella produzione di beni materiali e che ha ora bisogno di una quantità crescente di beni immateriali, prodotti sia da privati che da enti pubblici. L'ingovernabilità dell'Italia va considerata nel quadro di una generale perdita di effica¬ cia delle politiche economiche in tutto l'Occidente (ed anche nei Paesi socialisti, dove la direzione centralizzata dell'economia è in crisi profonda). Non si può certo dire che la gestione italiana dell'economia nel periodo successivo alla crisi petrolifera sia, tutto sommato, peggiore di quella di altri Paesi industrializzati; anzi, siamo stati abbastanza saggi da evitare, più di altri, la disoccupazione di massa. In realtà l'Italia è più governabile di quanto non appaia a prima vista. Questi italiani individualisti, chiusi nel le proprie famiglie, hanno dimostrato un forte spirito di comunità accettando di tutto, dalle domeniche senz'auto al codice postale, dal divieto di fumare in locali pubblici al limite di velocità sulle strade. Questo Paese ha mostrato, con la legalizzazione del divorzio, una tendenza a modificare civilmente le proprie leggi, e la stessa tendenza mostra ora con gli otto '< referendum » e i progetti di legge sull'aborto. Le cifre dicono che questo Paese di evasori fiscali oggi paga le imposte molto più che in passato e l'evasione di alcune fasce di cittadini, un tempo trattata con indifferenza, oggi crea scandalo e suscita la richiesta di contromisure. Ed è certo un indizio di un migliore spirito pubblico il fatto che centinaia di migliaia di piccole imprese si siano adattate alk contabilità difficile ed alle scadenze rigorose dell'Iva, per la quale sussistevano, al momento dell'introduzione, forti paure di un rifiuto in massa. I La parte moderna, industriale, occidentale del Paese usci gravemente menomata dalla crisi del 1963-'65. Da allora, pei più di un decennio, abbiamo campato — e neppure troppo male — soprattutto grazie alle nostre abilità « levantine ». Queste abilità, però, se ci hanno fatto sopravvivere ci hanno tolto anche, come rileva il Censis, la capacità di indirizzare la nostra evoluzione in un quadro mondiale di crescente disorientamento. E' per lo meno possibile, oggi, sperare fondatamente, sulla base di alcune trasformazioni strutturali degli ultimi anni, che la parte moderna del Paese possa riprendere il sopravvento. Si tratta, ovviamente, solo di una possibilità, ma il trascurarla a priori significa correre il pericolo di chiudere gli occhi di fronte a quello che potrà essere uno dei punti chiave dell'evoluzione italiana nei prossimi anni. Mario Deaglio

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