Fragile Acropoli di Giovanni Arpino

Fragile Acropoli CARTOLINE DA ATENE Fragile Acropoli (Dal nos'. o inviato speciale) Atene, aprile. Il visitatore ideale dell'Acropoli è oggi un giapponesino microscopico, di peso inferiore ai quaranta chilogrammi, rapido sguardo, auspicabile fretta, suole di gomma. Perché miliardi di miliardi di passi turistici hanno reso pericolanti le residue colonne, ogni pietra, ogni briciola. I monumenti tremano, l'ingresso al sacro colle attraverso i Propilei è rivestito di assi legnose, cordicelle delimitano la corsia d'accesso, le guide parlano di Pericle e raccomandano attenzione, nominano Erode Attico e i danni dello smog, indicano le Cariatidi e insultano le vibrazioni da jet. Alle otto del mattino orde di grasse americane in abbacinanti pantalonacci rosei e celesti stanno già arrampicandosi verso la sommità del colle. Pullman e tassi fermano ai piedi della rocca. Poliziotti sbattono via con un gesto chi cerca di far procedere il proprio motore straniero sulle pietre per ridurre la distanza che ancora lo divide dal Partenone. Tutti a unghie verso i poveri ruderi, allora, sbuffando, fotografando, tra ansiti e occhi sbarrati. E' un pellegrinaggio che sacrifica alla fatica, ad una curiosità obbligatoria, a certissima ignoranza storica e mitologica. Ragazzi si offrono come interpreti, il venditore di cataloghi ha un volto scuro e triste. Più che guardare agli scheletri dei templi, impudicamente offerti al vacuo interesse di turisti carichi di macchine fotografiche, serve sedere sul breve lago di pietra del cocuzzolo, congelatosi in ferma ondata. Sono pietre cosi lisce che rispecchiano i colori del cielo, una vetrosità che rimane ultima testimonianza del Mediterraneo ormai preda di bramosie ficcanasanti. Ci vorrebbe una nuova legge fantastica per limitare l'accesso all'Acropoli: il visitatore dovrebbe possedere cognizioni di storia e superare un esame di «gradevolezza» somatica. Sennò resti lontano, si accontenti delle cartoline, taccia e torni al luna-park da cui è nato. ★ * La parola « turco » è stata eliminata. Il caffè turco è detto caffè greco, la zona del Pireo dove sorgono decine di trattorie (camerieri e direttori cercano di catturarti lungo ì marciapiedi offrendoti aperitivi gratuiti, promettendo pesci unici al mondo) dal vecchio nome di Turcolimano è passata con rapido battesimo a quello nuovo, Mikrolimano. Niente di ciò che fu ed ancora sembra turco va citato. Meglio sparlare degli americani, mal visti malgrado i dollari turistici. La parola « americano » viene immediatamente accoppiata alla sigla CIA. Nell'albergo nuovissimo dove abito, gli armadi, le porte, le rifiniture negli ascensori sono già logori. Eppure appartiene ad una « catena » famosa. Un impiegato sospira: « Colpa degli imprenditori e dei colonnelli, che mangiavano sulle forniture. Tutti figli della CIA ». Nei negozietti, nei bazaar, i proprietari iniziano i loro discorsi di seduzione dicendo con un sorriso: « A te italiano un prezzo greco, non un prezzo americano. Entra e vedrai, siamo amici ». ★ ★ Un vecchio enorme, dagli occhi estatici e i riccioli candidi, sta immobile sulla porta della sua bottega. Vende rami, icone, collane, civette in pietra porosa. Le icone sono a montagne, o spudoratamente tinteggiate o abilmente invecchiate. Un amico che m'accompagna rovista, scruta, offre alla luce del sole, secondo inclinazioni diverse, il legno di icone grandi e minuscole. Alla fine dice al vecchio: queste icone le fate voi. Il vecchio lentamente devia lo sguardo sull'uomo, apre appena le labbra: « E allora provi a farle lei ». ★ ★ Nei vicoli del vecchio quartiere della Plaka le taverne hanno nomi che commuovono: si chiamano « Sisifo », « Semiramide », « Gorgone •>, « Esculapio ». La solita orchestrina all'aperto, ma fa ancora freddo, si mangia pagando prezzi spaventosi e rabbrividendo. L'aria è tersa, il vino dubito che sia stato ripulito col solfito. Ad una tavolata di tedeschi una ragazzina è costretta ad alzarsi e recitare una poesia. Ha gli occhiali, si vergogna moltissimo ma tiene fermamente tra le dita il foglietto dei versi. Riceve applausi dai parenti, i camerieri greci sogghignano spiando dalia porta che dà in cucina: l'ingenuità altrui è talmente grande da disarmarli. Inoltre si fidano del padrone. E' questi, infatti, portando il conto, a stabilire la mancia dovuta ai « ragazzi », che evidentemente lavorano a scarsa percentuale. Raccolta la mancia, il cameriere ringrazia prima il padrone poi i clienti. Lassù, oltre l'intrico dei viottoli in salita della Plaka, sono le rocce dell'Acropoli, finalmente deserte. Ma non vi abitano più le sacre civette care ad Atena, i ruderi hanno vaghi aloni rosati, come una piaga che anziché incancrenire è stata comandata dagli dèi a resistere in eterno con le sue deboli carni esposte. ★ ★ « Non è cambiato niente nella nostra vita, da quando sono stati cacciati i colonnelli. Siamo molto democratici, questo si, ma l'esistenza è tale e quale », mi dice un signore dignitosamente vestito nei suoi logori panni. Porta anche un antico cappello, i guanti stretti nel pugno sinistro. E' curioso di notizie segrete sui « rapimenti italiani ». Non gli piace l'attuale governo che amministra la Grecia, « ma non abbiamo niente di meglio », aggiunge. Loda la pulizia della città, il traffico abbastanza ordinato, ma mi consiglia di andare all'università, dove manifesti, graffiti, ultimatum, proposte e slogan deturpano i muri. « Come da voi, secondo quello che leggo. La gioventù di tutto il mondo va assomigliandosi troppo. Ciascuno perde le radici, noi perderemo la nostra grecità, voi la vostra italianità, persino i neri perderanno la loro negritudine. Ma questa non è salute, è solo smarrimento, un mucchio di frutti caduti dall'albero. Marciranno per terra ». ★ * E' bello passeggiare per ore nei vicoli della città vecchia, tra negozietti e caffè microscopici. Il lattoniere, il ciabattino, il fabbro, il falegname, l'arrotino lavorano, prendendo sosta per una chiacchiera, uno sguardo ai viandanti. E' vita antica, su ritmi dolci. Passa qualche prete ortodosso, assai lodevole per come s'è conservato: capelli raccolti in una crocchia dietro la nuca e tenuti con un nastrino nero, infilati nel copricapo alto e rigido; palandrane nere e grigie o nere e marrone, barbe imbiancate e solenni. Cammina, questo prete, con alta dignità, senza guardare in volto chicchessia. Risponde ai saluti con un breve cenno del mento. E' palpabile la sua convinzione, la sua sostanza. Nelle piccole chiese gremite di icone ogni legno è lucidissimo, ogni sedia e velluto e pulpito non mostrano traccia di neghittosità, di abbandono. Il silenzio negli stretti vani ha qualcosa di familiare, non di sacro. Poi arriva una turba di festanti fotografanti, sudaticci e allucinati, che cominciano a mitragliare i loro maledettissimi « flash ». Una barba ortodossa si mostra un attimo da una tenda e subito richiude, disgustata. Scappo anch'io, sperando che tutti questi barbari subiscano almeno il giogo del « souvenir » e acquistino anfore false, icone derivate da decalcomanie, rosari artefatti, crocifissi bizantini che potrebbero servire come « armi improprie », pelli di montone appiccicose che gli sfondino la valigia. Non c'è ombra di Termopili che possa vincere la barbarie turistica. « Et in Arcadia ego » era la commossa ed anche orgogliosa affermazione dell'uomo colto europeo al termine d'un viaggio in Grecia. Oggi, tanto vale che la stampino su un sottobicchiere. Giovanni Arpino

Persone citate: Erode Attico, Gorgone, Plaka, Ragazzi

Luoghi citati: Atena, Atene, Grecia