Storia di Tristano e Isotta con la musica di Martin di Massimo Mila

Storia di Tristano e Isotta con la musica di Martin Lo spettacolo alla "Piccola Scala,, Storia di Tristano e Isotta con la musica di Martin (Dal nostro inviato speciale] Milano, 20 aprile. Chi avrebbe creduto che si potesse cavare uno spettacolo vitale e validissimo dal nobile -oratorio profano» te vln herbe col quale II compositore svizzero Frank Martin si affermava in patria nel 1942, e ben presto in campo internazionale? Le esecuzioni da concerto davano l'impressione di un lavoro raffinato e perfino squisito, nell'orbita di un linguaggio musicale post-impressionistico, praticato con signorile distinzione e arricchito, certamente, d'esperienze musicali più recenti, senza che fosse possibile appiccare al compositore alcuna etichetta di moda. Ma una certa impressione di monotonia pareva sprigionarsi inevitabile, sia dalla scelta del testo — la leggenda originale di Tristano e Isotta, assai diversa dall'azione wagneriana, nella preziosa ricostruzione letteraria del filologo Joseph Bedier — sia per la deliberata castità dello strumentale: sette archi e un pianoforte a sorreggere l'impiego dialogante, ma più spesso narrativo, delle voci. Il fatto che in seguito il compositore avesse dato le sue migliori prove sempre nel campo dell'oratorio e del concerto, con la ballata rilkiana De: Cornet e con la Piccola sinfonia concertante, piuttosto che in sede propriamente teatrale con La tempesta e Monsieur de Pourceaugnac, sembrava ribadire le scarse possibilità sceniche di questo oratorio profano. Invece sono bastati un po' d'intelligenza teatrale e una scelta felice degli interpreti, per allestire uno spettacolino-gioiello sulla minuscola scena della piccola Scala. La principale difficoltà teatrale di questo lavoro è il suo taglio più narrativo che drammatico. Certo, I personaggi principali — Tristano, Isotta, la madre d'Isotta, Brangania, Re Marco, Kaherdin, fedele amico dell'eroe, Isotta dalle bianche mani, sposa a Tristano, e suo padre — parlano in persona prima, e talvolta (specialmente i due protagonisti) con tirate di preoccupante lunghezza, ma i loro discorsi sono collegati da lunghe narrazioni che ii compositore ha affidato a un piccolo coro, dal quale emergono spesso voci sole. Questa difficoltà, la regia di Lamberto Puggelli l'ha risolta prendendo il toro per le corna: accentuando cioè al massimo la compenetrazione, intrinseca al testo, di narrazione ed azione drammatica. Il coro, in abiti da sera neri, è spesso in scena; quando elementi del corso debbono rappresentare un personaggio (soltanto Tristano o Isotta sono tali dal principio alla fine in costume d'epoca) si buttano un manto rosso sull'abito da sera. Non si tratta della pacchianissima sfregola di fare il «Tristano in abiti moderni», ma piuttosto d'una specie di ingegnoso ed elegante far di necessità virtù, spiegato fin dall'inizio, quando il direttore d'orchestra arriva in soprabito, e se lo leva sul podio mentre i suonatori, arrivando alla spicciolata, lo salutano: 'Buona sera, maestro', dando l'impressio- ne d'una rappresentazione rimediata alla buona, con mezzi di fortuna, senza la minima intenzione di ■ épater les bourgeois». Insomma, sono di quelle trovate che se non riescono, possono sembrare stravaganze gratuite. Questa riesce benissimo, e serve l'opera a puntino, risolvendo il problema della sua natura ambigua di narrazione solo parzialmente realizzata in dialogo ed azione drammatica. Le scenografie di Paolo Bregni fanno tesoro del dono che Strehler ha fatto al teatro con i veli bianchì ondeggianti del Giardino dei ciliegi, veli che qui sono perfino realisticamente giustificati dalla presenza di vele e velieri nella prima e nella terza parte del lavoro. Ondeggianti, luminosi, montati su pennoni e forniti di sartiame, tirati giù perfino nella fossa dell'orchestra, che al terzo atto resta vuota perché tutti, anche I sette suonatori, il pianoforte e II direttore, si trasferiscono sul piccolo palcoscenico, questi veli avvolgono i personaggi in una mobile atmosfera di leggenda cho rende tutto credibile, tutto accettabile, anche II frac dei coristi e dei due eleganti macchinisti che vengono talvolta In scena a manovrare e disporre l'attrezzatura. Unico neo insignificante d'una regia e d'una scenografia che si possono definire geniali, l'Inutile sparatoria di rumori bellici con cui lo spettacolo ha inizio e fine, per ricordare al pubblico la data dì composizione dell'opera. Lo scandaloso disimpegno di Frank Martin che musicava Le roman de Tristan et Yseult mentre l'Europa andava a ferro e fuoco, deve pur essere rilevato e scusato in qualche modo dal controriformismo dell'impegno obbligatorio. Sul versante musicale i pregi dell'esecuzione concorrono a porre sotto una luce nuova la finissima partitura. L'ottima traduzione italiana di Franco Arruga scrosta dalla musica una buona parte della patina debussista alimentata dal suono della lingua francese, e mette in luce altre componenti cui non si era badato a sufficienza: anzitutto il gusto d'una vocalità monte-verdiana rievocata liberamente, senza nessuna pesantezza archeologica, ma per spontanea attrazione. E poi certe connessioni che lì per lì possono sembrare strane, ma in realtà non lo sono affatto, se si pensa alla formazione parzialmente mitteleuropea di Frank Martin: per esempio un certo modulo melodico narrativo delle masse corali fa pensare spesso al «tono di racconto» che s'incontra nella ballata del Mahagonny di Kurt Weill. Altro vantaggio della traduzione italiana è che, comprendendosi tutto (e qui entra in gioco anche il merito degli ottimi cantanti, singoli e in coro), l'Impressione dì monotonia melodica è quasi totalmente sconfitta: il senso delle parole fa da ossatura alla musica, relegandola al suo giusto compito di servire l'azione e la narrazione, come intendeva l'autore, il quale probabilmente non pretendeva affatto che essa fosse collocata in primissimo piano, anche se certi episodi strumentali non mancano di fornire uno sfondo efficacissimo alle situazioni. Un elogio incondizionato va alla compagnia dei cantanti e a chi ha saputo sceglierli, tutti cosi bravi e cosi belli (il che ha non poca importanza in un teatrino tascabile come la piccola Scala), perfettamente adatti alle rispettive parti: Leila Cuberli un'Isotta commovente, appassionata, e il tenore Carlo Gaifa, uno stilista vocale, dalla pronuncia scultorea; la snella, elegantissima Brangania disegnata da Franca Fabbri; la mirabile voce grave di Luisella Ciaffi Ricagno, che apre lo spettacolo come » madre d'Isotta» e poi diventa una salda colonna del coro. Analogamente i baritoni Gastone Sarti e Teodoro Rovetta, il tenore Walter Gul lino, il mezzosoprano Elfriede Demetz emergono tanto come singoli personaggi, quanto come narratori in quel coro che consta d'altre sette voci di merito e rango solistico. Altrettanto bravi I sette archi e la pianista, che Edoardo Muller ha diretto con molta finezza. Bellissimo successo, con applausi agli interpreti vocali e strumentali, al direttore, al regista e allo scenografo, ai quali è pura glustiza accomunare nell'elogio Tito Varisco, direttore dell'allestimento scenico. Massimo Mila

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