L'industria di Carosello di Francesco Rosso

L'industria di Carosello VIAGGIO NEL VENETO PROVINCIALE, CATTOLICO L'industria di Carosello Così erano chiamate le attività economiche del Trevigiano, legate al "miracolo" e a prodotti che potevano apparire superflui - La crisi non incide molto sugli operai-contadini; l'inflazione rende competitive le merci, si esporta fino in Giappone Treviso, aprile. Una specialità, un prociotto il cui nome, appena pronunciato, evochi Treviso. E' la domanda che pongo all'ing. Aldo Tognana, presidente dell'Associazione Industriali. « Il radicchio », è la sorridente risposta. So che i trevigiani sono ilarmente cinici nella conversazione, ma il radicchio, quello rosso, anche se accostabile a garofani giganti, proprio non lo vedo come emblema sul labaro cittadino. Ma il tempo della celia dura poco. « Vuol proprio conoscere la specialità trevigiana, un prodotto che gira ovunque ci siano montagne, Europa, Asia, America, Africa persino? Vada a Mantebelluna », mi consiglia l'ingegner Tognana. Montebelluna non è troppo lontana da Treviso e vale la pena seguire quel consiglio, non fosse che per vedere. Così capito nella capitale mondiale dello scarpone da sci, li esportano in tutto il mondo, ricercati dai competenti come t migliori in assoluto. Montebelluna è il centro di questa singolare specialità, ma vi sono poi centri minori come Cornuda, Cairano, Volpago del Montello, il quadrilatero celebre nel mondo delle scarpe da montagna; si fabbricano scarponi da sci. ma anche da doposci, da passeggiate in montagna, da roccia per le ascensioni. In breve, chi va in montagna per l'uno o l'altro sport, calza scarpe trevigiane. La "Graziella" Come una simile industria si sia sviluppata in questo settore non saprei dire, come non saprei spiegare il fenomeno delle centinaia di industrie sorte come per un tocco di bacchetta magica, quasi dalla sera alla mattina, in quasi tutta la provincia di Treviso. Nella sede dell'Associazione Industriali avevo incontrato un uomo divenuto famoso nel mondo, il signor Carnielli, fabbricante di biciclette, fra cui la « Graziella ». E' venuto anche lui dalla bottega di ciclista, dove si riparavano le camere d'aria provandole nella bacinella colma d'acqua? E' possibile, ma è certo che molti industriali trevigiani sono nati proprio così. Un bravo ciabattino un giorno si rese conto che avrebbe potuto fare qualcosa di più se avesse installato una macchina. Acquistò la macchina a credito e fabbricò più scarpe. Il miracolo trevigiano è tutto qui, l'operaio specializzato, che conosce il suo mestiere, ha saputo servirsi dei due mezzi che la moderna tecnologia gli offriva. Il ciabattino è diventato industriale calzaturiero, il falegname ha tirato su la fabbrica di mobili, il meccanico la piccola officina. Alcune dame intraprendenti si sono date alla maglieria, alla biancheria femminile intima di lusso. Nel Trevigiano sono oggi in attività 470 maglifici di piccole dimensioni e le sottovesti, i corsetti di seta elastica, i pigiami e le vaporose camicie da notte che sono esposte in via Montenapoleone a Milano, in via Roma a Torino, in via Condotti a Roma, escono dalle mani di queste anonime « Sorelle Materassi » disperse nella pianura trevigiana. Tutto questo incominciò pressapoco intorno al 1956, quando Treviso e la sua provincia erano settime in graduatoria fra le zone depresse; le sfarzose ville erette dai grandi capitalisti veneziani del '500 continuavano a sgretolarsi, alcune furono trasformate in fattorie agricole, i buoi ruminavano puntando i placidi occhi su affreschi secenteschi che ornavano sale divenute stalle. Aleggiava anche nelle campagne il non sopito orgoglio di aristocrazia decaduta, perché il Trevigiano si è sempre sentito il "naturale prolungamento della Serenissima Repubblica sulla terraferma, ma ciò non bastava a mandare avanti i bilanci familiari. Bisognava emigrare, o accontentarsi del pochissimo che la terra produceva. Ma i trevigiani, considerati un po' matti, sanno volgere tale mattana a loro vantaggio. Intanto, ad esempio, la propria condizione, da agricoltore, artigiano, operaio, a imprenditore industriale. Incominciò uno, imitato da un secondo, seguito da un terzo, una catena che continuava ad allungarsi, fino a formare una galassia di fabbriche e fabbrichette, le cosiddette microindustrie, di cui è difficile tenere il computo. Come fu possibile un così repentino mutamento? Genialità, intraprendenza, voglia di lavorare e, soprattutto, senso del limite. Valga un esempio: Bruno Visentini è di qui. Non dico che tutti gli altri posseggano le qualità di Visentini, ma nel loro piccolo gli imprenditori trevigiani sanno il fatto loro. Non hanno mai tentato di fare la politica del rospo che vuole diventare bue e | scoppia; ci sono stati due soli casi, e sono scoppiati. Gli altri, nonostante la crisi economica, sono ancora lì, ed in piena ripresa. « Nel 1976, mi dice l'ing. Tognana. specie nel secondo semestre, le ore di cassa integrazione sono pressoché scomparse ». Industrie di modeste dimensioni, che l'imprenditore può tener d'occhio continuamente. Due sole cifre: il 77 per cento delle industrie trevigiane sono a conduzione familiare, l'86 per cento hanno meno di cento dipendenti. Ve ne sono di così piccole che occupano tre, quattro lavoratori. Gli artigiani, agricoltori, persino i contadini, che si sono lanciati nell'avventura industriale sono partiti da zero, coi debiti e col medio credito bancario; se avessero atteso i contributi governativi, come accade nel Meridione, sarebbero ancora a mangiar polenta e radicchio con un po' di luganega nei giorni di festa. Invece, nella provincia il reddito medio a persona è ora superiore alla media nazionale e nelle classifica delle province industriali Treviso occupa l'ottavo posto. Merito di quelli che Alberto Cavallari ha definito « Tenenti d'industria », ed era già dargli molti galloni, perché la galassia dei microstabilimenti è davvero frantumata in così modeste entità che si potrebbero definire botteghe artigiane, dalle quali esce un po' di tutto, ma specialmente quei prodotti che potrebbero apparire superflui. Infatti quella trevigiana fu definita « industria di Carosello » una frase che ebbe fortuna e che viene ancora ripetuta anche se Carosello è finito in cineteca. Si producevano abiti, frigoriferi, lavatrici, barche, biciclette, calze, motorette, scarpe, maglieria, biancheria femminile, mobili. Tutto bello, lustro, invitante, i mobili, i tavolini, le maniglie, gli elettrodomestici erano di linea modernissima, ideati dai più noti « designers ». Era il momento del miracolo economico, l'era folle dei consumi. « Passava il boom, dicono qui, e noi l'abbiamo acchiappato ». Bisognava approfittare del momento favorevole, garantire la merce che « i miracolati » esigevano. I miracolati eravamo noi italiani, ma ora qualcosa è mutato, il miracolo economico sembra si sìa dissolto; come e quanto ha inciso la crisi economica, la stretta creditizia, su questa incredibile repubblica industriale trevigiana? Alcune cifre le ho già riferite, le imprese piccole e piccolissime hanno retto abbastanza bene, anche se non hanno avuto ulteriori sviluppi. « La crisi non ha inciso molto a Treviso, anche per ragioni locali, mi dice l'in- gegner Tognana; qui abbiamo un'economia mista, c'è stato sì il boom industriale, ma la campagna non è stata mai abbandonata. In un certo senso direi che l'agricoltura è stata incrementata negli ultimi anni ». Questa economia mista, integrata e ben equilibrata fra agricoltura e industria, ha i suoi vantaggi, ma anche dei difetti. Con la fabbrichetta alla porta di casa, l'operaio continua a fare il contadino durante le ore libere senza faticare troppo. Ma nel periodo dei raccolti, del grano, del mais, o della vendemmia, l'assenteismo in fabbrica tocca punte vertiginose. I resti di ieri •Nonostante ciò, il Trevigiano ha retto bene l'impatto della crisi, anzi, la cassa integrazione è stata per molti una manna; prendevano parte della paga e lavoravano i propri campi; esattamente come accadrebbe nel Meridione. Ma ora c'è ripresa, l'inflazione ha reso competitive le merci italiane sui mercati stranieri, ed i trevigiani esportano che è una bellezza, persino in Giappone. A loro la lira debole va bene. Che le cose marcino nel senso giusto lo si avverte non solo nelle campagne, guardando luccicare i vetri dei capannoni e degli stabilimenti fra i filari di vitigni scheletriti dall'inverno ed i pochi gelsi rimasti a testimonianza di un'epoca in cui la produzione del baco da seta era uno dei pilastri della povera economia trevigiana, ma lo si constata soprattutto a -Treviso, la piccola capitale di questa galassia di microindustrie. La calma, aristocratica mestizia che spira dalle anguste viuzze ancora selciate del centro storico, dalle case affacciate ai canali che ancora protendono sull'acqua il breve pontile su cui le donne si chinavano a lavare il bucato, è l'espressione di un mondo che, pur avendo accettato le regole dell'esistenza moderna, conserva profondi legami col passato. I bombardamenti della prima guerra mondiale hanno alterato in parte la fisionomia della città con le ricostruzioni in falso gotico. I bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno aperto voragini paurose nel tessuto cinquecentesco di Treviso. Le hanno colmate con orrende costruzioni finto moderne che ricordano i palazzoni piacentiniani. Ma nonostante ciò Treviso, bombardata dal cielo come poche altre città italiane, ha conservato una venerazione per il suo passato che commuove. La feroce potatura di alcuni vecchi platani ha scatenato polemiche a non finire, anche perché tali platani sorgono enormi lungo un canale poco distante dal ristorante « Le Beccherie », celebre perché lì si abbattevano gli animali e, accanto, c'era un'osteria che cuoceva le trippe ancora fresche (solita manifestazione di golosità trevigiana) e prossimi anche ad una piazzetta armoniosa come un campo veneziano, dove sorge la «Osteria della Colonna», convegno di buongustai locali e foresti, sopra la quale Arturo Martini-aveva studio e laboratorio, modellava le sue inimitabili sculture e polemizzava ferocemente con l'arte « pompieristica » della Biennale di Venezia. Sembrano discorsi per iniziati, invece tutti i trevigiani conoscono le glorie passate e presenti della loro terra. Sono scomparsi Giovanni Comisso e Gino Scarpa, è scomparso Arturo Martini, ma quasi nella scia del celebrato scultore sono venuti sulla scena dell'arie trevigiana i due Benetton, padre e figlio, maestri del ferro. Il primo fonde grandi sculture un po' tradizionali; il più giovane, Simon, una copia di ciclope, ma con due occhi, ammorbidisce il ferro in filigrane che hanno la leggerezza dell'ala di un gabbiano, di una foglia di felce. Nel miracolo industriale di Treviso, l'officina metalmeccanica dà forma d'arte anche al ferro. Francesco Rosso