Critico latitante di Carlo Casalegno

Critico latitante IL LETTORE DI LIBRI, OGGI Critico latitante Se ne è parlato a Roma, al recente convegno di Tuttolibri sulla situazione certo non facile in cui versa il libro e versa l'editoria. La critica letteraria sarebbe latitante. Lo ha detto con chiarezza Carlo Casalegno: non ci sono più critici come Emilio Cecchi. La questione in qualche modo non è nuova: il merito di Casalegno è stato anzitutto quello d'aver fatto un nome; e ciò significa aver indicato un metodo, aver offerto in sintesi un insieme di valori che paiono spariti. Fino a Emilio Cecchi, fino al suo elzeviro di terza pagina, dove il critico condensava con la fermezza cordiale ma discussa che gli conosciamo il parere su un libro, valeva il metodo inventato, giustificato, sezionato con un bisturi follemente esatto, da Sainte-Beuve. Diceva Sainte-Beuve: il critico ha a disposizione il giudizio della predilezione o àeM'antipatia, il giudizio dell'equità o dell'intelligenza, infine il giudizio di posizione o d'indulgenza. Emilio Cecchi li ha praticati tutti e tre con vera arte. Un libro poteva piacergli o spiacergli per via d'una istintiva adesione o altrettanto istintiva ripulsa; poteva ispirargli parole crude o lungimiranti, eque e sottili; poteva essere da lui apprezzato o contestato per considerazioni esterne ad esso ma pienamente giustificate sul piano della vita culturale. In tale varietà, Cecchi non veniva mai meno a se stesso: non veniva mai meno a un principio e a un codice di comportamento intellettuale che giustificava in pieno e per intero la sua attività. Non che il critico si incollasse alle idealità del pubblico e le facesse scialbamente sue: ma egli sapeva che un pubblico esisteva, con proprie idealità. Nei confronti di queste stabiliva un rapporto dialettico, di incontro e scontro, modulando predilezioni, intelligenza, e giocando di fioretto con la propria « posizione » o « collocazione » culturale. Tutto questo ha funzionato bene (ha comunque funzionato) finché la letteratura è rimasta, nel proprio rapporto col pubblico, quel che era fin dai tempi di Sainte-Beuve: quel rapporto era veicolato dal giornalismo, e la letteratura ha sentito, nel tramite giornalistico che appunto era la critica, un modo per realizzare una propria ulteriore finalità. Cosa è cambiato? In tutta franchezza, non me la sento di sostenere che sia mutata la letteratura, poiché essa muta di continuo e insieme è anche fissa ad una identità ottenebrante (per chi l'osservi dall'esterno). Se è cambiato qualcosa, è cambiato il rapporto che la letteratura ha col pubblico, poiché, per il tramutarsi accelerato delle moderne società industriali in società di massa, il pubblico non è più ciò che conoscevamo e identificavamo con rapidità. La massa non è un unicum indifferenziato: credo sia la somma appena numerica di diversi insiemi impermeabili fra loro, a loro modo atomizzati, a loro modo pulviscolari. Questi diversi insiemi costituiscono insiemi diversi di pubblico, il quale non vuole o non può riconoscersi più unitariamente in nulla, per lo meno per quel che riguarda la propria sete di cultura. Fioriscono differenti culture, differenti letterature: o, meglio, sembra che fioriscano; e il cosiddetto pubblico a questa apparenza fornisce credito. Le fornisce credito mediante contestazioni che chiama « politiche », e che invece danno voce a grovigli psicologici o a una oscura fisiologia nella quale non è semplice fare luce. ★ * La vita culturale, quella letteraria in specie, legata com'è a risultati e a « posizioni » individuali, è travolta da una incertezza, da una incostanza dove l'attività equilibratrice d'un critico, o del critico, certamente non ha più senso. Non uno, ma cento critici allora? Di fatto la letteratura tende a offrire di sé un volto progettuale o, come si dice, « congetturante »; non più ad offrire risultati espressivi, della cui validità, a partire dal piano linguistico, potrebbe essere semplice giudicare. Cento critici: tanti quanti possono essere i progetti o le » » congetture su una letteratura possibile. A questo punto, perché non ammetterlo? la letteratura stessa diventa latitante, non soltanto la critica. O meglio, diventa latitante per quella porzione di pubblico che non si riconosce nel progetto o nella congettura offerta... Di questo passo si arriva all'ipotesi, per qualcuno suggestiva, che esistano cento lette- rature, la più falsa fra le illusioni di una malintesa democrazia. Comunque, è vero: il critico non esiste più. Non esiste poiché non ha più ruolo. Scriveva Proust che, nel leggere uno scrittore, riusciva a decifrare, sottintesa alle parole, « l'aria della canzone » che le teneva insieme, « in ognuno diversa da quella degli altri ». Leggeva, e « canticchiava » quell'aria: il suo orecchio vi si misurava poiché si accorgeva che, cosi facendo, istituiva con essa un rapporto parodistico, « critico ». Il critico agiva così: il giudizio nasceva in lui da questo istinto, a modo suo musicale, vago e futile; nasceva dal gusto o dal piacere della contraffazione. Su di esso, egli esercitava la ragione, la conoscenza logica e il criterio morale; l'istinto si traduceva in concetti e in un discorso, organizzati al fine di specchiarsi nell'intelligenza dei lettori che avrebbero incontrato. Il critico scriveva per il foglio fragrante d'inchiostro che il suo lettore ripiegava accanto alla colazione del mattino: sperava, e sapeva, d'essere letto, quasi per un privilegio, accanto alle notizie di prima pagina. Egli sapeva di non censire la letteratura, i libri nuovi, le nuove espressioni d'arte; sapeva di mediarne con discrezione il significato, di aggiungere ad esso l'eco talvolta inafferrabile della storia, di scoprirne il riverbero balenante nel costume quotidiano. Il suo lavoro, tutto sommato fallibile, empirico quanto mai, dipanava un filo resistente e utilissimo. Niente di questo, ora. II critico che decifri oggi, sottintesa alle parole che legge, l'«aria» di una canzone, sa di « canticchiarla » per sé, e si preoccupa di mettere al segno qualcosa àio liguanii lui soltanto, una pagina che lo realizzi così come un disegno intellettuale o sensibile realizza un qualsiasi altro artista. A tutto questo si può muovere una prima obiezione. Le cento letterature non dovrebbero mettere in mora la professionalità del critico: cento letterature sollecitano all'equità, articolano le predilezioni. Non è così: se c'è oggi un barlume di critica, essa appare sempre più di posizione, una critica conveniente a questo a quello schieramento di cultura. Se ci si chiede il perché di tanto, ci si accorge che le varie posizioni, più che a criteri culturali, rispondono a criteri di mercato. Contemporaneamente al centrifugarsi del suo rapporto col pubblico, la letteratura è diventata anche un « affare » economico. La concorrenza ha le proprie leggi: le cento letterature finiscono per giocare a quel fine. Di qui l'ovvio risultato di una critica di posizione. Inutile fare del moralismo, e parlare di critica « asservita ». Si tratta di un « servizio » compiuto in perfetta coerenza: è il pubblico stesso ad esigerlo, il pubblico o i cento pubblici molecolarmente espressi dalla società di massa. Nessuno vuole che nel proprio mercato interferiscano altri; e così si va avanti. Il riflesso sghembo di questa situazione, che ha tutti i caratteri del provvisorio e dell'instabile, si proietta nel giornalismo letterario, trasferitosi dalla terza pagina alla pagina speciale, i cosiddetti supplementi settimanali, che, se informano quantitativamente, se censiscono più libri di quanto avvenisse sulle terze pagine fino a una dozzina di anni fa, negando la scelta e la selezione del deprecatissimo gusto, assecondano le richieste di una editoria centrifugata, che ha quale unica urgenza il diffondere i propri prodotti, sottraendoli per quanto può a ogni confronto. Questa editoria ha bisogno del « tecnico » o dello « specialista », che illustri p faccia della pedagogia o della persuasione, intorno a ciò che essa mette in listino; non ha bisogno del critico le cui parole non sono certo pedagogiche, non illustrano, sono appena espressione di una individualità: e in una società di massa l'espressione di una individualità tende a slittare sempre più fuori di ogni codice. Ripeto: questa editoria, soddisfacendosi del <- tecnico » e dello « specialista », mostra il proprio scopo con chiarezza: le necessitano soltanto lettori consenzienti, consenzienti in modo molecolare e centrifugato, ma di sicura fede. Che la società sia composta di strati non è una novità; la novità è che la cultura, e di conserva la letteratura, come la musica, siano tentate a istituzionalizzare questi strati attraverso ' forme specifiche (basterebbe a provare quel che dico la tanto enfatizzata discriminazione del pubblico «giovane» all'interno del pubblico generico). Eppure lo scopo ultimo della cultura, della letteratura, era proprio quello di superare, cancellare, obliterare simili stratificazioni: era quello di parlare il linguaggio di tutti, di riscattare tutti nel dominio dell'immaginazione. E' ' vano chiedersi se questo sia ancora possibile? Enzo Siciliano

Persone citate: Casalegno, Cecchi, Emilio Cecchi, Enzo Siciliano, Proust

Luoghi citati: Roma