Gli agricoltori sono più bravi dei politici

Gli agricoltori sono più bravi dei politici Gli agricoltori sono più bravi dei politici Il nomignolo « Bàgli nen », ci piemontesi lo appiopparono i militari di truppa ai tempi in cui, appena fatta l'unità d'Italia, nel Regio esercito ci si istruiva a sparare per file: la prima fila inginocchiata, la seconda in piedi. I sergenti istruttori, molti dei quali provenienti dall'esercito sabaudo e quindi erano piemontesi, intendendo salvaguardare l'incolumità delle reclute affidate alle loro non proprio amorose cure, inginocchiate davanti ai commilitoni pronti a far fuoco, le invitavano a stare immobili: «Bugia nen! », « Non muoverti! ». Travasato nel linguaggio comune, il termine stette a rappresentare l'immobilismo conservatore e reazionario della classe iirigeiite di questa regione, prima, e di tutti i suoi abitanti poi. Stando alle statistiche, invece, tale definizione male si adatta al l'odierna classe imprenditoriale agricola piemontese, sia che sì tratti di coltivatori diretti di piccoli fondi, sia che si tratti di conduttori di grandi e ben attrezzate aziende. Se vi capitasse di osservare un capannello di una dozzina di agricoltori sulla piazza di qualche paese, vi interesserà sapere che nella scorsa annata agraria, nonostante la crisi politica, quella economica, l'austerità, l'una tantum, la siccità, le inondazioni, tutti quanti quegli operatori, lungi dal rimanere inerti, hanno saputo modificare la propria azienda per adattarla meglio a queste difficili condizioni. Non solo, ma almeno tre di essi (più del 20'/o) lo hanno fatto in modo radicale, profondo, tale comunque da comportare, secondo i criteri in uso nella Cee, una modificazione di classatone. Anzi, per essere più precisi, se l'osservazione vi capita di farla nel Vercellese, o comunque in qualche zona tipicamente cerealicola, potrete pensare, senza tema di sbagliare, che cinque su dodici hanno eseguito radicali trasformazioni di struttura. Se vi trovate invece in una zona collinare, viticola, ad esempio nel Monferrato, dovrete pensare che il numero di trasformazioni radicali è minore (due su dodici). Pochissime trasformazioni sono state invece apportate da gli allevatori alle proprie aziende (meno dell'I per cento di trasformazioni radicali di struttura). Quasi tutti questi cambiamenti, a parte qualche caso che la statistica definisce erratico, oltre ad avere una causa (la convenienza a produrre in modo più efficiente) hanno anche una direzione ed un verso precisi: l'ampliamento aziendale e la specializzazione. Da quali statistiche si può dedurre tutto ciò? Dall'osservazione e dalla misurazione dell'evoluzione strutturale delle aziende contabilizzate che il Piemonte, come tutte le altre circoscrizioni in cui è diviso il territorio della Cee, invia ogni anno a Bruxelles, alla Commissione, perché questa possa formarsi un'idea precisa ed immediata della situazione dell'agri¬ coltura esistente in ogni regione. Nelle scorse settimane, inlatti, in tutta la Cee, appositi Comitati di informazione contabile agricola hanno selezionato quelle aziende che, raggruppate in razionali campioni statistici, serviranno a rappresentare la realtà agricola nell'intera area comunitaria ed a valutare (In corpore vili, direbbero i biologi) gli effetti e le reazioni che si producono nelle singole unità produttive, a seguito dei provvedimenti normativi presi dalla Cee. Questa Rete di informazione contabile agricola è stata istituita dalla Comunità una decina di anni fa ed ha avuto, specie in Italia, dove a quei tempi la contabilità agraria era pressoché sconosciuta, uno sviluppo graduale che dovrebbe completarsi il prossimo anno con la contabilizzazione di 12.000 aziende (sul totale europeo di 28.000). Il Piemonte, che in questo settore è la regione meglio organizzata, ha già raggiunto il tetto massimo di sviluppo della Rete fissato per Vanno 1978 in 940 aziende « contabili » addirittura dallo scorso 1976. Per questo motivo l'osservazione dei risultati è già fin da oggi estremamente indicativa ed interessante. I commissari piemontesi sono stati sorpresi dalla dinamica strutturale che hanno mostrato le aziende campione e quindi, entro t limiti in cui i dati si possono « inferire », cioè attribuire anche alla realtà (ma si tratta di un campione abbastanza numeroso. | quindi ad elevato grado di fldu ìcia), tutta l'agricoltura piemontese nell'anno 1976. I Poiché è da presumere che nelle regioni vicine (per le quali la misurazione del fenomeno non è ancora possibile in forma nitida come accade invece per il Piemonte a causa dell'arretratezza del sistema contabile) le cose non siano andate molto diversamente, se ne deduce che l'agricol tura della Pianura Padana nel 1976 ha subito, grazie ai suoi imprenditori, un profondo processo di ristrutturazione e di ammodernamento. Qual è la morale? Più di una. La prima è che, nella gran parte, le aziende agricole sono condotte da imprenditori capaci e coraggiosi, il che, tradotto in termini economici, significa in grado di valutare e di reagire agli slimoli del mercato e del prezzo dei mezzi tecnici e dei prodotti agricoli. La seconda constatazione, piuttosto malinconica, muove invece dalla considerazione che la politica che dovrebbe presiedere al cambiamento delle aziende, la cosiddetta « politica delle strutture », inventala dai tecnici della Comunità nel quinquennio 196Ì1969, enunciata dal Mansholi nel suo ormai famoso « piano » nel 1969, fatta regolamento Cee nel 1972, recepita dall'Italia nel 75 attende ancora (e chissà per quanto tempo) di essere applicata con leggi da Regioni che tutto sembrano volere tranne che di attuarla. Considerando quindi che in un anno, per il solo effetto dei prezzi, il 20'.'c degli agricoltori modifica radicalmente la struttura della propria azienda, si deduce che in cinque anni le strutture sono completamente cambiate, ed in dieci sono cambiate due volte, mentre nello stesso periodo di tempo non solo non si è attuata una politica delle strutture, ma non si è nemmeno riusciti a completare l'iter della legge che avrebbe dovuto introdurre tale politica. « Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur ». Si consideri che anche quando Roma (e Torino, Firenze, Perugia... ecc.), avessero finito di legiferare e l'iter della legge sulla politica delle strutture riuscisse a concludersi, tale politica dovrebbe essere comunque gestita da burocrazie regionali lente e nella maggior parte dei casi assolutamente impreparate ai compiti previsti dalla legge. Se ne deve concludere che 'a politica delle strutture, dato l'attuale stato della pubblica amministrazione, può essere aggiunta ad una politica che favorisca le migliori condizioni per l'esercizio dell'impresa agricola, ma non certo sostituirla. Il fine di tale politica è quello di rendere efficienti le aziende che ancora non lo sono e che possono diventarlo a spe se della collettività. Tuttavia tale fine va raggiunto senza deprimere o rallentare l'attività delle imprese che già producono in modo razionale. Gilberto Cormegna

Persone citate: Gilberto Cormegna