Morire in tv di Furio Colombo

Morire in tv IMMAGINI AMERICANE Morire in tv Quando nell'ultimo film di Sidney Lumet, Quinto Potere, la rapace produttrice di un programma televisivo decide di far salire « l'indice di gradimento » del suo programma facendo morire « in diretta » il presentatore, la sequenza può apparire esagerata e surrealistica. Ma gli spettatori americani capiscono il senso del dramma realistico che si nasconde dietro la esagerazione del film. Morire in televisione. Sidney Lumet, con Quinto Potere ha fatto un bel film. Ma non ha inventato l'idea. Due anni fa, mentre ero a Berkeley, una presentatrice della stazione locale si è uccisa « in onda », dopo averlo annunciato. Non cercava un indice di gradimento più alto, cercava — ha detto — « più verità ». « A tutti voi che credete di vedere la verità in televisione, a tutti voi che siete abituati alle notizie di stupri e delitti come se fossero merce da supermarket... guardate che cosa vuol dire davvero morire in televisione ». La ragazza si sparò in studio, morì di fronte alle telecamere. L'oscura stazione televisiva locale, involontariamente, guadagnò una inaspettata massa di pubblico. Alcune settimane fa in California c'è stato un altro dramma, che in qualche modo ricorda sia il film di Lumet che la brutta vicenda di Berkeley. « Chico » Prinze era l'idolo della televisione americana, il programma di uno show di immenso successo, e anche uno fra i pochissimi portoricani di New York, nato e cresciuto nel Bronx, ad avere conosciuto la celebrità prima dei vent'anni semplicemente interpretando se stesso (le vicende comiche e amare di un orfano portoricano adottato da un bianco burbero, povero e buono). « Chico » — che non avrebbe potuto affrontare senza rischio una folla di teenagers, che non usciva di casa per non stringere migliaia di mani, per non firmare migliaia di autografi — si è sparato alla testa fra uno spettacolo e l'altro (il suo era uno show quotidiano). Ma la macchina dello spettacolo non può fermarsi. Chico era un ragazzo dal lavoro febbrile, capace dei ritmi accelerati, isterici. Quel ritmo quasi ridicolo che Lumet mostra nel suo film con tanta bravura. Chico è morto, ma molte puntate del suo show erano state registrate in anticipo. Lo spettacolo continua, tutte le sere milioni di americani ridono con il morto. I giornali hanno ricordato che dietro c'era una storia di droga, che Chico era un ragazzo infelice. + * Il protagonista del film di Lumet era un « vecchio infelice », che teme di essere finito. La ragazza che si è uccisa in diretta in California non aveva fretta di vivere ma di morire. Aveva una voglia spasmodica di dimostrare qualcosa. Che cosa c'è in comune, fra questi drammi (veri e inventati, ma basati comunque sull'esperienza)? C'è — prima di tutto s'intende — un accanito, disperato senso del confronto, della competizione, la concorrenza senza limite che arriva a schiantare i nervi. Accade in tutte le industrie, in tutti gli affari. Accade persino in letteratura. Silvia Plath non si è forse uccisa sul suo volume di versi? Ma in televisione si vede. E in televisione accade in una relazione più intima e più morbosa con la natura stessa di quel fenomeno che è « la finestra aperta sul mondo ». Sono sicuro che molti lettori pensano: tragedie americane, tragedie di un mondo che va troppo forte e combatte troppo duro e finisce per perdere la ragione di quello che fa. Posso confessare che quando ho conosciuto Barbara Walters, la più celebre giornalista della televisione americana, la donna che intervista quando vuole il premier cinese o lo Scià di Persia, usando domande dure e dirette (e ottenendo alcuni tra i migliori programmi nel giornalismo televisivo del mondo), ho pensato alla speciale asprezza del mestiere di fare la televisione in questo paese. Barbara Walters confessa di aver paura delle vacanze, di non volere mai allontanarsi dal suo posto di lavoro o almeno dalla città. Anche quando attraversa il mondo per uno dei suoi celebri scoop vive in ansia per quello che può succedere « in casa ». Sa di essere la più amata ma anche la più odiata personalità televisiva d'America. Il suo « co-anchorman », il giornalista che insieme a lei presenta tutti i giorni le notizie serali della ABC, non le risparmia frecciate, anche « in diretta ». E lei risponde gelida e spiritosa. Ma di ritorno dall'Iran, qualche tempo fa, non ha esitato a dire agli amici: grazie a Dio, mentre 10 non c'ero il gradimento della mia trasmissione è calato. Intendeva dire: senza di me non possono andare avanti, questa è la prova del mio successo. Sembrava una scena di Quinto Potere. Barbara Walters, infatti, è la giornalista più pagata del mondo. Un milione di dollari all'anno. Si dice che abbia ispirato 11 personaggio di Faye Dunaway. Eppure la gran quantità di aneddoti americani nel mondo più aggressivo di televisione che esista, non bastano a dire: va bene, questa è l'America, un'altra faccia della durezza spietata della sua vita. No. In questo vivere — o morire — in televisione c'è una rivelazione del mezzo e del tipo di vita che il mezzo interpreta e rappresenta. Sappiamo tutti che il grande talento, la qualità unica della televisione è la ripresa diretta. Vuol dire essere subito in collegamento con una cosa che accade. * * Tutto è cominciato (cioè la coscienza della grandiosità di questo fenomeno che prima non esisteva) quando Lee Oswald è stato ucciso a Dallas in ripresa diretta. Quel delitto ha svelato non solo alla gente ma anche a chi fa la televisione, l'enorme e misteriosa forza di questa macchina. Essa è fatta dalla soddisfazione di essere sul posto, dalla persuasione di essere nella presa di corrente della realtà, in una specie di identificazione con l'apparecchio televisivo. Ma l'altra grande caratteristica della televisione è la soddisfazione dei tagli, cioè, attraverso un continuo montaggio, la accelerazione dei tempi della vita. La televisione italiana — poche ore, e programmi che ancora derivano cosi vistosamente dal teatro, dal cinema o dal giornalismo scritto — non ha ancora svelato in pieno il potenziale di questa macchina spazio-tempo, come del resto la gran parte della televisione europea. Io credo che non sia la qualità commerciale della tv americana ad avere accelerato il processo di scoperta del mezzo, ma la spinta più brutale e diretta dei fatti della vita, e una lunga tradizione ad essere meno ipocriti con i fatti, a svelarli, così come sono, il più presto possibile. Da noi sta appena accadendo, ora che la gente può assistere alla distruzione del palco su cui Lama ha appena parlato all'università di Roma, può vedere la faccia traforata di proiettili dell'attentatore al capo dell'antiterrorismo di Roma, o vede da vicino la testa riversa e crivellata dell'autista del procuratore Coco e ascolta, quasi in diretta, la conferenza stampa dal balcone di Vallanzasca. Ecco, il vero nocciolo di quella misteriosa natura della televisione comincia lì. Forse già i Vallanzasca ne sono i naturali protagonisti, fotogenici, adatti all'inquadratura. Una volta i banditi erano brutti e goffi e non c'era alcuna relazione fra l'essere un esperto bandito e l'essere un bravo operatore dei mezzi di comunicazione di massa. Vallanzasca è un ottimo protagonista dello schermo. E allo schermo si era inconsciamente preparato. A parte la fotogenia che cosa lo lega allo schermo? L'accelerazione della vita, la bruciatura dei tempi morti, il rifiuto dell'attesa, di qualunque attesa. La sua strada è stata di dare la morte agli altri, e all'interno di una misteriosa rete di contatti e ragioni su cui ancora manca la luce. Ma un filo lo lega agli altri « caduti » della televisione, dovunque la televisione funziona nel pieno delle sue risorse. Questo filo è un senso di onnipresenza e insieme di fretta. « Chico », il suicida del celebre programma americano, continua a ripetere agli amici, « vivere, sperimentare, godere, morire, tutto prima dei trent'anni. Voglio mettere nella cassa da morto un bellissimo corpo ». Evidentemente vedeva l'inquadratura della sua morte. Doveva essere una inquadratura adeguata. La esperienza di spettatore e poi quella di protagonista gli ha insegnato che non si deve aspettare. E non si deve deludere. Di personalità straordinarie come Barbara Walters si dice spesso, nel giro degli esperti televisivi in America, che sarebbe capace di uccidere il suo rivale (l'uomo che presenta con lei il programma) « in diretta ». Psicologicamente è vero, anche se non è ancora certo chi « ucciderà » per primo. Il capolavoro di Lumet, nel film Quinto Potere, è stato di ritoccare la realtà (e anzi, con tipica operazione televisiva, di montare fatti diversi, tutti realmente accaduti) in modo da mettere bene in vista la natura del « mostro ». Quello che il film fa capire (come lo fanno capire gli episodi che ho raccontato) è che morire in televisione è — tragicamente — naturale, un fatto omogeneo col mezzo che, chiedendo sempre più accelerazione, cerca nel montaggio rapido il punto alto, il punto drammatico. Qualche volta il punto di morte. Questo non dice nulla sul bene o sul male della televisione. E' solo una storia sul modo di usarla. La televisione è una specie di radiografia della vita sociale. Ci ha fatto scoprire quanta parte di morte nasconda l'organizzazione della vita che abbiamo scelto di vivere. Furio Colombo