I critici a senso unico di A. Galante Garrone

I critici a senso unico I critici a senso unico Cattivi pensieri di A. Galante Garrone Un giovane storico della Germania Orientale mi aveva pregato di rintracciargli un discorso che Salvemini tenne nel 1935 a Parigi, al Congresso internazionale per la difesa della cultura. (Fra gli intervenuti, Heinrich Mann e André Gidej. Ho sott'occhio quel discorso, oggi sconosciuto o dimenticato: e mi pare che valga la pena di dirne qualcosa. Molti di quegli scrittori avevano attaccato la società borghese, come sinonimo di fascismo, ed esaltato la Russia sovietica (che era poi quella di Stalin). Salvemini intervenne con la sua solita, tagliente chiarezza. Esistono, così disse, due specie di società borghesi: quelle che, con tutti i loro difetti, presentano pur sempre degli spiragli attraverso i quali può farsi strada un soffio di libertà; ed altre in cui tutti gli spiragli sono chiusi, e una sola cultura può svilupparsi, quella della menzogna ufficiale. Dimenticare questa distinzione può condurre a funeste conseguenze pratiche. In realtà, fascista è la società borghese che è giunta addirittura a sopprimere la possibilità di una cultura libera: è l'Italia di Mussolini, la Germania di Hitler. Non è ancora la Francia, né l'Inghilterra. «Di fronte alle società borghesi di stampo fascista noi, noi italiani, noi tedeschi dobbiamo assumere un atteggiamento di negazione radicale. Nelle società borghesi non fasciste il nichilismo radicale è cosa pericolosa. Non disprezzate le vostre libertà, difendetele ostinatamente pur continuando a dichiararle insufficienti, a lottare per svilupparle». E quanto alla Russia sovietica, diceva, si può ammettere che, dopo secoli di zarismo, e non ancora consolidato il regime della rivoluzione comunista, la durezza della lotta s'imponga come una dolorosa necessità transitoria. Ma gli intellettuali d'Europa non possono glorificare il regime di Stalin come l'ideale della libertà umana; debbono invece auspicarne l'evoluzione verso forme più libere, verso un tipo di società in cui sia lecito a tutti esprimere le proprie idee. A tutti, senza eccezione. Ogni intellettuale dovrebbe prendere per motto le parole di Voltaire: «Signor abate, sono convinto che il suo libro è pieno di corbellerie, ma sarei pronto a versare fino all'ultima goccia del mio sangue per assicurarle il diritto di pubblicare le sue corbellerie». Nessuno può pretendere al monopolio della verità, perseguitare i dissenzienti. Certo, anche negli Stati borghesi di tipo non fascista la libertà di creazione e di espressione è compressa da condizionamenti economici e sociali. Ma la compressione è diversa dalla repressione assoluta vigente nei Paese fascisti. Il fascismo è nemico non solo in quanto capitalistico, ma in quanto totalitario. E un intellettuale che si rispetti non può non avversare ogni forma di totalitarismo. E allora, se libertà vuol dire diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale, egli non può dimenticare che oltre alla Gestapo e all'Ovra fasciste esiste una polizia politica sovietica; che se in Germania ci sono i campi di concentramento e in Italia le isole di confino, nell'Urss c'è la Siberia. Di fronte alle reticenze o alle iperboliche glorificazioni di certi intellettuali, Salvemini esclama: «Permettetemi di far mie, con voce ben meno potente, le parole di Leone Tolstoi: "Non posso tacere"». E cosi conclude il suo di¬ scorso, rivolgendosi agli amici inglesi e francesi: «Forse occorre aver vissuto l'esperienza di uno Stato totalitario, non fra i dominatori, ma fra coloro che sono stati schiacciati, bisogna conoscere la degradazione morale a cui lo Stato totalitario riduce non solo le classi intellettuali ma anche le classi operaie, per rendersi conto dell'odio e del disprezzo che qualsiasi Stato totalitario, qualsiasi dittatura suscita nel mio animo. Vi auguro, amici di Paesi ancora relativamente liberi, di non dover mai vivere questa esperienza». Sono passati più di quarant'anni. Ma quel lontano discorso salveminiano ha serbato un sapore di attualità, ci può ricordare ancora qualcosa. Per esempio, che gli intellettuali hanno il dovere di protestare (là dove la protesta è possibile; contro tutte le soppraffazioni, di destra o di sinistra che siano. Solo a questa condizione ha un senso dire, con Tolstoi: «Non possiamo tacere». Certe deplorazioni a senso unico ci appaiono piuttosto sospette; e alla lunga ci infastidiscono. E ancora: che non solo gli intellettuali, ma tutti (e penso specialmente alla volgare, oltraggiosa, violenta intolleranza di certi giovani d'oggi) hanno il dovere di rispettare, di non impedire le manifestazioni delle idee le più distanti dalle loro, anche le più bislacche. E che bisogna guardarsi dalle grossolane semplificazioni, dall'etichettare come «fascista» ogni società borghese: anche se non si possono ignorare o sottovalutare i nessi economico-sociali, e la matrice di classe da cui storicamente sono nati, o hanno tratto alimento, i movimenti fascisti. E che, infine, è pericoloso e assurdo non riconoscere il pregio di quelle libertà che pur esistono. Per quanto imperfette e viziate e stravolte dalle perduranti ingiustizie sociali, e spesso ipocritamente ossequiate ma nel fatto dimenticate o smentite, esse sono pur sempre uno spiraglio, che consente la lotta per un loro ampliamento. Punto di partenza, non d'arrivo; ma ineliminabile presupposto di ogni maggiore libertà.

Persone citate: André Gidej, Heinrich Mann, Hitler, Leone Tolstoi, Mussolini, Salvemini, Stalin