Washington non ha dato patenti per i partiti comunisti europei di Vittorio Zucconi

Washington non ha dato patenti per i partiti comunisti europei I retroscena della dichiarazione del Dipartimento di Stato Washington non ha dato patenti per i partiti comunisti europei (La palla rilanciata in Europa: gli Stati Uniti valuteranno le situazioni reali) (Dal nostro corrispondente) Washington, 7 aprile. La definizione della nuova politica americana sul problema dei partiti comunisti europei occidentali ha raggiunto ieri, con la pubblicazione delle «istruzioni» gli ambasciatori Usa («Non interferire, non collaborare»), un primo momento di chiarificazione, seppur non conclusivo, poiché essa promette di evolvere con i fatti. Ma da oggi almeno, esiste nel confuso panorama delle interpretazioni e dei segnali ufficiosi un punto fermo al quale riferirsi, e una politica nella quale spicca un fatto oggettivo di cui in Europa e in Italia ci si deve rallegrare: la solenne affermazione di rispetto per l'autonomia decisionale degli elettorati europei e dei loro governi. Insomma i sospetti di «sovranità limitata» all'americana che Nixon, Ford e Kissinger avevano alimentato pur con scarso successo sembrano fugati (e non è detto che questo semplifichi necessariamente le equazioni politiche in Italia). Le reazioni dei giornali americani alla dichiarazione del Dipartimento di Stato sono caute — per ora — ma tutte mettono in rilievo il salto qualitativo compiuto dalla amministrazione Carter rispetto ai suoi predecessori. Il New York Times afferma che gli Usa «non intendono più agire per tenere i comunisti luori dall'area governativa», ma registrano reazioni diplomatiche più riduttive, che vedono nel documento «un cambiamento di stile più che di sostanza» rispetto alle precedenti prese di posizione Usa sul tema. La Washington Post parla di «ammorbidimento» di Washington sulla questione eurocomunista, ma anch'essa sottolinea l'espressione di «non indifferenza». Come dunque era prevedibile, la dichiarazione ha aperto una serie di interpretazioni diverse e talora contraddittorie ed è già questo fatto in sé il segno di una scelta politica fatta dai suoi autori: nessuna ambiguità interpretativa era possibile per i moniti kissingeriani all'elettorato italiano. Un importante aiuto alla comprensione del documento viene se si ricercano i retroscena della sua pubblicazione. Esso era pronto già da qualche settimana, ma il Dipartimento di Stato lo aveva trattenuto per una serie di ragioni tra le quali un'indiscre zione non esatta pubblicata da un giornale conservatore italiano, nel quale si anticipava il contenuto come fermamente negativo nei confronti del pei. Poiché il testo non appare affatto come «totalmente negativo» la sua pubblicazione subito dopo avrebbe potuto avere il tono di una correzione «a sinistra» del tiro politico. Fatto questo non gradito all'amministrazione americana e al suo nuovo rappresentante in Italia, Richard Gardner, la cui preoccupazione principale era di apparire accettabile a tutta la gamma delle opinioni italiane, e non solo a quei circoli più avanzati che da tempo lo conoscevano e lo apprezzavano. E' noto che la nomina di Gardner aveva suscitato, inizialmente, qualche inquietudine negli ambienti italiani più conservatori. La successiva uscita dell'articolo di Novak e Evans sulla Washington Post, nella quale si «rivelava» che la dichiarazione era stata ritirata perché troppo «aperturista» e come tale aveva disturbato alcuni partiti in Italia, pur suscitando polemiche e costringendo l'ambasciatore ad una smentita, in certa misura ha ristabilito l'equilibrio. Così, bilanciate le attese per il contenuto,e creata l'atmosfera giusta per la pubblicazione («£' ora che questa dichiarazione venga finalmente letta e valutata direttamente» ci aveva detto un personaggio del Dipartimento di Stato anticipandocene il contenuto qualche giorno fa) il documento è stato reso noto. Ma non senza alcune importanti correzioni. Nella versione originale del testo comparivano alcune frasi che avrebbero giustificato una let'ura più «aperturista». In esse si diceva (parafrasiamo la lettera) che il governo americano era disposto a collaborare e lavorare insieme con qualunque governo in Italia (il nostro Paese era menzionato esplicitamente) che avesse dimostrato: 1) la sua indipendenza da interferenze esterne; 2) il suo rispetto per i diritti umani e civili dei governati; 3) la decisione di mantenere l'Italia nella comunità degli interessi occidentali. Si trattava insomma di un'ancor più esplicita affermazione di quanto si intravede comunque nella versione pubblicata: il ricorso a giudizi di fatto e non di principio, per valutare la politica europea e dei comunisti in particolare. E il Dipartimento di Stato ha ritenuto che anche la versione ridotta rendesse abbastanza chiaro questo punto, senza sottolinearlo oltre misura. Va inoltre notato che una dichiarazione che avesse offerto il fianco a interpretazioni «di sinistra» troppo esplicite, avrebbe potuto comportare il sospetto di un altro tipo di interferenza, svuotando la promessa politica della Casa Bianca di «non collaborare, né sabotare». E l'amministrazione Carter deve pur misurarsi, in casa propria, con un Parlamento i cui sentimenti anti-comunisti sono oggi più vigorosi e pregiudiziali che mai. E' per questo dubbio che un'interpretazione troppo «aperturista» del documento possa giovare davvero alla sinistra italiana, che potrebbe trovar non facile spiegare alla propria base l'improvvisa fioritura di simpatie americane e le ragioni della «condiscendenza» statunitense a un suo accesso al potere. E potrebbe destare l'attenzione dei «falchi» parlamentari, og¬ gi ipnotizzati dalla offensiva di Carter sui diritti civili in Urss e dal suo duro negoziare con il Cremlino. Non è possibile dimenticare che i comunisti rappresentano già una forza importante e indispensabile nel governo dell'Italia e questo non ha provocato alcuna reazione negativa pratica in America, dove al contrario ci si adopera per intensificare la collaborazione economica e politica. Un fatto che vale più di ogni documento (lo si confronti ad esempio con l'immediato dopoguerra e con le reazioni che la «non sfiducia» del pei avrebbe suscitato in Usa). Un'ultima considerazione sembra infine opportuna. Affermando la propria volontà di rispettare scelte politiche del governo e del popolo italiano, riservandosi di valutare I a posteriori i comportamenti pratici, Washington ha formalmente rilanciata la «palla» del problema eurocomunista in campo europeo. Il documento non è né un segnale di stop, né un segnale di via libera, il che sarebbe in entrambi i casi offensivo e inaccettabile. Esso ci segnala che Washington riconosce la impossibilità di agire in termini preventivi (impossibilità che era pur chiara anche a Kissinger, ma mascherata dietro asprezze verbali) oggi che gli Usa hanno rinunciato a interventi di forza, segreti o scoperti; aspetta da noi le decisioni e le scelte, riservandosi — come è nel suo pieno diritto — di giudicarle alla luce dei propri interessi internazionali. L'ambasciata americana a Roma non può essere un'agenzia per il rilascio o il rinnovo di patenti politiche. Vittorio Zucconi

Persone citate: Gardner, Kissinger, Nixon, Novak, Richard Gardner