È tempo di poesia in libro e in scena

È tempo di poesia in libro e in scena È tempo di poesia in libro e in scena La poesia va spostando il suo baricentro? Pare voglia fare di sé spettacolo, senza abiurare al proprio esser anzitutto « parola ». Fa propaganda a se stessa con tutte le armi disponibili. E trova ascolto, un pubblico attento e reattivo: ragazzi, femministe, autonomi d'ogni specie, indiani metropolitani, emarginati o emarginabili, « pieci », tutti insieme ascoltano e litigano. Si sente parlare del « sociale » e del « personale », del « pubblico » e del « privato », del « decadente » e dell'« ermetico », del « progressista » e del « funambolico » (un'orgia di aggettivi sostantivati), fino alla caparbia, obbligatoria richiesta ultimativa, « Ma la poesia a che e a chi serve? ». Ciononostante, nonostante la sazietà che tutto questo suscita, lo spettacolo continua: e prolifera. E' quel che avviene a Roma da alcune settimane con una intensità che sconcerta, al Beat 72, a La stanza, al Politecnico, a La tartaruga. Qui, Elio Pagliarani insegna e fa insegnare « metrica » (ripete il suo credo per una poesia che non consoli). Negli altri locali, o cantine off-of}, si legge e si dibatte. Al Beat 72 la cerimonia è fissata per il sabato sera, ore ventitré. Corifeo Franco Cordelli (l'autore dell'antologia 11 pubblico della poesia), regista fisso e stabile Simone Cardia (ci dorme persino dentro il Beat), ha dato il via Dario Bellezza. Lo spettacolo consistette in un calcio che il poeta si prese alle reni da un attore che egli aveva prima « scritturato » e poi, si dice, «protestato». Certo, non «protestato» al punto di non commissionargli quel calcio (con seguito di gemiti) che servì a dare un brivido alla platea. La quale, per sua parte, era attentissima alla voce monologante di Bellezza che le annunciava quanto la poesia fos' se « sacra » fin nel corpo del suo poeta. Ma Bellezza deve amare i contrappassi allopatici, e sollecitò il proprio attore ad attentargli la schiena. Seguì Paolo Prestigiacomo, che, visibile ma taciturno dietro una tela a strisce, esibì la propria voce incisa su nastro e il proprio corpo su diapositive, sottolineando solitudine e incomunicabilità superabili solo attraverso mezzi riproduttivi di comunicazione. Renzo Paris, per terzo, con l'aiuto registico di Laura Betti (e me morie discografiche della medesima), recitò il ruolo del maschio assediato nel regno delle madri dalla rivolta femminista: finì col mettersi un cappello di paglia in testa fiorito di rose, e incorniciò così la sua larga faccia di italiano appenninico e il suo spettacolo. Assistendo a tante letture e ai dibattiti che le accompagnano, vocianti, confusi, esibizionistici, vien fatto di pensare che il rapporto fra poesia e lettori, e lo stesso rapporto fra poesia e poeta, sta subendo mutamenti. Non più un rapporto condizionato dalla carta stampata, dal suo profumo lievemente acido: la bella impaginazione, le larghe smargina ture, i bianchi e i neri divisi con eleganza dal tipografo. No, niente di questo: che in qualche misura aiutava l'espressività del verso, nel suo apparire grafico, a lievitare. Quel che importa (parola pronunciata, messa in scena che la sottolinea) è una sorta di visualizzazione drammatizzata dove quell'espressività si rovescia tutta sul versante del comunicativo. Per questo mi chiedevo all'inizio se la poesia andasse spostando il proprio baricentro. * * Arrivano alla ribalta anche poeti inediti in volume. Cosa conta? Essi si consegnano non all'inchiostro a stampa ma alla forza (o alla fragilità) della viva voce, e in vista di questo rischiano tutto quanto si può rischiare. Il pubblico accetta il gioco e si lega solo a ciò che ascolta. Vuol dire che libri non se ne vedranno più? Tutt'altro. Importa al poeta stampare, ma anche correre in catacomba (il Beat 72 è un antro nero, volta a botte, sotto il livello stradale), e scontrarsi con quel pubblico variopinto, dispostissimo a rapinargli o a stregargli il cuore. Dicevo che di libri ve ne sono. Sul versante delle novità, per esempio, il primo libro di Michelangelo Coviello, Indice (Feltrinelli ed.). Sì, è un libro viziato da più di un ricevuto avanguardismo: pedaggio pagato, si sente, a una convenzione anche questa «comunicativa»; ma è un libro segnato da una strana autenticità sensuale e musicale (ritmi messi in solfeggio da un orecchio che credo sappia bene cosa sia oggi musica). Co¬ viello grida, ironizza: la sua freschezza vitale si muove con libertà, scandisce, quasi in accelerazione cardiaca, « Addio a presto addio di nuovo addio ». Se dalle novità si passa a poeti già noti e definiti, basterebbero le uscite, tutte per Mondadori, di Giovanni Giudici (Il male dei creditori), di Bartolo Cattafi (Marzo e le sue Idi), e di Maria Luisa Spaziani (Transito con catene), per mostrare quanto la stagione si presenti non trascurabile e quanto il libro abbia una sua vincita. Giudici prosegue, con incisività gnomica e civile, a raccordare, per dirla con le usurate parole dei dibattiti, il « pubblico » col « privato ». Fra un « Immaginando Gramsci » e un « Omaggio a Baudelaire », Giudici scava dentro una sentenziosità ritmica vene di ascendenza cristiana, mutuate dall'etica di Bonhoeffer e da Maritain. ★ ★ Cattafi è invece per intero calato nel color Matisse delle sue immagini: sembra disposto a tesserle all'infinito, luce su luce; e mentre pare tutto esposto all'esterno, eccolo calato nel suo interno, nelle sue « tane profonde ». Sa vedere « posati su scaffali / a perdita d'occhio / oggetti opachi / colmi dei nostri mali »; insegue « il filo » di un'idea che si svolge « come anice in acqua »: « nell'ambiente adatto / ondeggia calmo e si volta / in volute / fresco e frale arabesco / ombra sospesa a picco sul reale ». Cattafi si spinge disinvolto sulle erte dell'epigrammatica, il mondo lo stimola, il paesaggio lo tenta; e per quanto egli suggerisca di possedere un « osso » e una « anima » beckettiani, la sua natura meridionale (è siciliano) lo prende al laccio. Attratta da tutte le malie della letteratura e dell'espressività è Maria Luisa Spaziani. Transito con catene (un titolo che non rende giustizia alla varietà che sigla) mi sembra il suo volume più maturo, dettato con respiro largo e pieno. Ci sono polene, amuleti, una rossa vestaglia, rosse stelle di Natale , coralli, geroglifici, una pipa, magnolie, fiori scialbati, almagesti e papiri. E' una « musa », quella della Spaziani, che « raccoglie braccia mozze, torsi teste / adagi di concerto / ricci ionici / emistichi sentenze. E smemorata, / folle (Teodorico, Saffo, Empedocle) / nel baratro li getta alla rinfusa / e lei stessa, nell'etere diffusa, / si fonde all'Etna, al mare, alle foreste ». Si può parlare di decorazione neoromantica o protosurrealistica: ma fermarsi qui è come fermarsi alla soglia di questa poesia. A ispezionarla meglio, a scantonare dalla suggestione sonora cui indulge, il battito regolare dell'endecasillabo domina ogni altro accento, affiorano contenuti, sostanze differenti. La cantabilità della Spaziani si risolve in « portamenti », per dirla col gergo dei cantanti lirici. Leggo i suoi versi, e l'intonazione che li colora mi ricorda il suono scuro, il metallo sensibile, della chiave di contralto: penso alle grandi parti del melodramma scritte per mezzosoprano, Leonora di Guzman, la principessa Eboli, Amneris, Carmen. La Spaziani ha il piacere di esibire il proprio virtuosismo; ma in quel virtuosismo cadono stille di pena esistenziale. La favola lascia trasparire la vita: « Già per la quarta volta hai racceso il tuo volto, / cavaliere trentenne, Avatar, grazia di fonte eterna. / Quando io dico tu non se né tu né gli altri / ma un'ombra bella, un'eco in fondo alla caverna / Sono la creatura del cui genio sei segno, / silenzio, corrosa bellezza, arco spezzato nell'oltremare... ». Dunque, sfuggendo alle lusinghe della maniera, al lussuoso sovrapporsi delle lacche e degli smalti, si incontra in questi versi un taglio più dolente e disperato, una trepidazione contenuta, il timore di altro che arrivi dietro e dopo la vita e che la vita incalza. Allora il piglio canoro si assottiglia, si screpola, riesce a distruggere la propria fisicità. « Presto iberna il tuo cuore, inventagli un letargo / prima che il vento gelido piombi a spezzarti il fiato ». E ancora (versi che seguono la poesia che ho appena citato) : « Perché la vita, germe al suo sbocciare / si offende e si richiude, / e le strutture dopo l'uragano / si mostrano maligne, inerti, nude? ». Il cielo, « l'inutile cielo romantico » sta per essere tirato via come un velario da queste parole. « Tutti saremo cenere. E nel frattempo ci nutriamo di cenere ». Come si vede, qui non c'è niente che somigli a una spettacolarizzazione del verso, anche se il verso si serve dei suoi trucchi consueti: è vivo, vibra, inventa un suo universo. Ma, tornando alla questione del baricentro della poesia, alla conclusione, non me la sentirei di dare risposta tutto sommato positiva alla domanda che mi ponevo all'inizio. La poesia tende al visibile, e non si nega niente per raggiungere questo fine; dunque il suo baricentro resterebbe fermo là dove sta. Il significato che essa propone, al presbite e al miope, è sempre il medesimo: di apparire e farsi realtà, come vuole e quando vuole. Enzo Siciliano

Luoghi citati: Eboli, Roma