Figure e fatti di Giovanni Arpino

Figure e fatti Figure e fatti di Giovanni Arpino La rivolta delle parole Vi sono parole che l'uso smodato deforma, ingigantisce, rende indigeribili come bocconi troppo stopposi. Il termine «giovane», ad esempio. Funziona benissimo in un discorso semplice, pericola quando lo si adotta al plurale: un «giovane» è un'entità, è creatura amabile, i «giovani» diventano categoria ambigua, da prendere con le molle, dal gusto di precotto. Detestabile è inoltre l'uso di questa stessa parola come aggettivo qualificante: siano sterminati coloro che ripetono «gusto giovane», «vestire giovane». Chi conia questi messaggi, falsi dentro e fuori, fa mercimonio e volgare baratteria. Ogni parola contiene una sua sfrontatezza e un suo pudore. Non vuole diventare stendardo, si accontenta del picciol posto nel vocabolario, nella pratica. Un «giovane» ci è certamente amico (oltreché caro agli dèi) ma i «giovani» crescono a partito mostruoso, a ghenga, a truffa ideologica. Diceva un bravo ometto, il professor Lacan: «C'est le monde de mots qui crée le monde de choses». Santa ingenuità filologica. Oggi nessuno di noi oserebbe più dire del proprio cane: gli manca solo la parola. Perché conosciamo l'inutilità cinerina, la «mancata presa» della parola che non «agi». Uscite di bocca, dai quaderni, dai taccuini, dalle carte più o meno segrete e sudate, ecco le parole vendicarsi, tradire: sono esposte sui muri, costrette a subire correzioni fantasiose (da un «viva il re» che si prolunga in «viva il re-ato», letto su una casa torinese) e quindi straripano, mostrano ignobili budella, s'arricciano, coagulano, impazziscono, recalcitrano luna contro l'altra. Benché non sfuggano a certa filosofia: su un muro di Milano è apparsa la scritta: «E' finita la crisi, comincia la miseria». Anche chi ha mestiere con le parole giunge così ad un limite vertiginoso: e si accorge di odiare verbi, sostantivi, aggettivi, diventati macchine inutili. Oggi più che mai metter nero su bianco abbisogna d'una scelta: ogni parola è montagna di rifiuti, ogni congiuntivo è sasso nello stagno, ogni frasicola rischia di suicidarsi nel gorgo dei doppisensi. Grazie ai «murales», della cultura è rimasta solo la prima sillaba. Non parliamo già più: si vive di echi — indiani o da stadio — e di cori. Lanciamo ultimatum, appelli, minacce, ordini, incattivendo da mattone a mattone. Liberata dai superbi gioghi sintattici, non più condizionata da un minimo obbligo colloquiale, la parola è vipera scappata dal cesto dell'incantatore: scade ad arma, come la P. 38, la calibro 9, il parabellum mortifero. Sparano le lingue, microfoni, altoparlanti, telefoni, senza più ubbidire ad alcuna regola. Cesare, che usava sostantivo e verbo asciutti, oggi non otterrebbe un posto da scribacchino. Cicerone non 10 inviterebbero ad un pranzo di nozze, temendone 11 moralismo all'ora del caffè. Svetonio avrebbe forse un impieguccio dietro uno sportello postale, perché veloce. Shakespeare e Goethe scriverebbero ancora, certo, ma sulle pareti di un loro «garage» privato, al riparo dalla vanità d'autore e dalla curiosità del prossimo. ★ ★ Diventata nonna, Eva avvertì di andar perdendo la memoria. Le sembrava assai più misericordioso Caino, nel ricordo, che non Abele. Del serpente non sarebbe riuscita a raccontare la storia. Invano Adamo le diceva: non pensarci, da quel giorno ho dovuto stanare e schiacciare migliaia di bisce nel nostro podere, figurati se sono ancora arrabbiato. Lei, seduta davanti alla porticina della capanna, tessendo, cercava di fermarsi su fumosi episodi, per non smarrirli. Stuoli di nuore le passavano accanto in un berciare immodesto. Nipotini di ogni età e colore la salutavano dalla polvere della strada. Ed Eva rispondeva, socchiudendo le palpebre, fingendosi lieta. Ma non riusciva più a rammentare nomi, né di quella nuora forte e chiacchierona né di quel ragazzetto così vivo di riccioli c risa. Di sera, guardando la luna, pensava a Caino. un bel giovane, vogl* ui cambiar condizione, te sognava città e non misere greggi. Lo capiva. Anche lei, da ragazza, in quel Giardino, si era trovata spersa. Al tramonto della luna, prima di addormentarsi, pregava come sempre Adamo di riparlarle dei figli fuggiti oltre l'orizzonte. Piangendo, riusciva a trovare il sonno. Al mattino, in quelle albe gelide del deserto, usciva in cortile, odorava l'aria secca. Gli strumenti contadini ancora dormivano, appesì. Una zappa, un coltello le riportavano l'immagine di Caino, povera creatura lontana ormai più di una stella. Sedeva su una pietra, in attesa del risveglio di Adamo, e pensava sema pensiero alcuno, come ogni madre.

Persone citate: Goethe, Lacan, Shakespeare

Luoghi citati: Milano