Due anni a Curcio e ai 9 brigatisti per l'oltraggio ai giudici di Torino di Vincenzo Tessandori

Due anni a Curcio e ai 9 brigatisti per l'oltraggio ai giudici di Torino Bologna per timore di disordini era in stato d'assedio per il processo Due anni a Curcio e ai 9 brigatisti per l'oltraggio ai giudici di Torino (Dal nostro inviato speciale) Bologna, 4 aprile. Lo Stato, oltraggiato nelle persone dei suoi giudici alle assise di Torino, condanna le Brigate rosse. Senza sorprese si conclude così un altro capitolo, l'ennesimo, di questa lunga e folle storia. Nel maggio scorso nell'aula della corte torinese i brigatisti avevano esaltato l'agguato mortale al procuratore generale Francesco Coco e alla sua scorta, rivendicato la responsabilità, minacciato giudici e difensori designati d'ufficio e questi ultimi diffidati anche a svolgere l'incarico. Era scattato così il meccanismo che ha portato al dibattimento di oggi. Sono le 13,20 quando il tribunale emette il verdetto, comune ai dieci imputati: due anni e due mesi per «apologia di reato» e «oltraggio alla corte e ai carabinieri». Sulle minacce agli avvocati il tribunale ha invece deciso che non essendo i patroni d'ufficio incaricati di «un pubblico servizio» ma di un servizio di «pubblica necessità» per arrivare a giudizio occorre querela di parte, che non è stata fatta. Dopo i sussulti di violenza Bologna attendeva con timore il processo. Per garantire l'ordine la città era stata posta in stato d'assedio. Oltre al reparto incaricato della consueta sorveglianza al Palazzo di Giustizia, il servizio prevedeva l'impiego di 1200 uomini, metà carabinieri e metà agenti di pubblica sicurezza. Attorno a Palazzo Baciocchi il cordone dei carabinieri appariva massiccio: i controlli erano accurati, l'esame personale compiuto anche con i rilevatori di metallo. Nella sala dei concerti, da anni diventata l'aula della corte d'assise e d'appello, gli imputati sono giunti pochi minuti prima delle 9,30: tutti tranne Prospero Gallinari. evaso in gennaio dal carcere di Treviso. Di fronte alla vecchia gabbia in ferro battuto rimasta immutata dall'epoca del processo Murri ne è stata costruita un'altra, anch'essa con le sbarre in metallo. In questa, alla sinistra del presidente, sono entrati: Renato Curcio, Alfredo Buonavita, Arialdo Lintrami e Tonino Paroli; all'interno sono stati mandati anche quattordici carabinieri e un sottufficiale. Nella gabbia dall'altra parte del pretorio sono stati fatti entrare Roberto Ognibene, Pietro Bertolazzi, Alberto Franceschini, Paolo Maurizio Ferrari e Pietro Bassi. Gli imputati hanno i lineamenti tirati, sembrano aver perso gran parte della propria carica aggressiva. Il presidente Trizzino ha iniziato l'appello. Ed è così cominciata una schermaglia con i brigatisti. Al nome di Gallinari, il terzo dell'elenco, Paroli ha risposto: «E' scappato». Un momento dopo si è alzato Ferrari: «Prima di procedere su questo problema come su altri vogliamo che venga letta la lettera che abbiamo inviato al tribunale». Subito dopo l'avvocato Sergio Spazzali di Milano, difensore di fiducia di Buonavita e Ognibene, ha chiesto di leggere il documento, quattro pagine scritte a mano. Premesso che «il processo alla rivoluzione proletaria non è possibile», i brigatisti affermano che questo di Bologna di un «processo non ha più nemmeno la forma ed è invece un'azione di annientamento attraverso la quale vi promettete | di propagandare il vostro manifesto controrivoluzionario». Rivendicato poi l'attentato all'auto del presidente Trizzino, i brigatisti hanno denunciato «il trattamento riservato nelle carceri ai combattenti comunisti con sezioni speciali, celle d'isolamento, blocco totale delle relazioni sociali». La lettera è un delirante attacco contro tutti, contro la democrazia cristiana, contro il partito comunista definito «revisionista»: «Grazie alla sua complicità quando avete scelto questa città per il processo vi illudevate di operare in un'area normalizzata, pacificata, immunizzata dalla lotta di classe». Quindi i brigatisti hanno ricordato i recenti disordini. E' seguita infine la revoca del mandato agli avvocati di fiducia «invitati ad abbandonare questa piazza d'armi». Subito dopo l'avvocato Spazzali ha comunicato che gli imputati intendevano lasciare l'aula e se n'è andato lui stesso seguito dal collega Arnaldi di Genova. Alcuni applausi del pubblico hanno chiuso la lettura del documento. Accomodante, il dottor Trizzino ha chiesto la conferma della revoca dei difensori. «Non abbiamo bisogno di avvocati», gli ha risposto Pietro Bertolazzi. Sempre più disposto alla tolleranza il presidente ha allora domandato se intendessero andarsene. «Noi non oi avvaliamo di nessun diritto vostro. Se vogliamo ce j ne andiamo quando e come ci pare», ha ribattuto Franceschini. E Ferrari: «Lei faccia il suo mestiere come noi facciamo il nostro. Copra gli infami, gli assassini di Lorusso». Il presidente ha aggiunto: «Per favore si limiti a rispondere sì oppure no». La situazione era ormai chiara: i brigatisti intendevano andarsene, ma non volevano farne formale richiesta. Si è alzato Curcio e con voce calma ha detto: «Ma insomma! Questo è un problema vostro, non nostro. E' inutile che stiamo qui a discutere. Vogliamo andarcene, questa è una riunione di famiglia vostra». Ultimo tentativo del dottor Trizzino: «Dovete chiederlo formalmente». Gli ha risposto anco¬ ra Curcio gridando lo slogan: «Lotta armata per il comunismo». Dall'altra parte dell'aula Bertolazzi e Buonavita gli hanno fatto eco. I brigatisti sono stati allontanati dall'aula. Il pubblico ministero Claudio Nunziata ha chiesto il verbale d'udienza, esaminerà l'ipotesi di perseguire i brigatisti «anche se così corriamo il rischio di portare avanti una spirale senza fine». Sono stati ascoltati i diciannove carabinieri chiamati a testimoniare su quanto accadde davanti alla corte d'assise torinese. Quindi ha preso la parola il rappresentante della pubblica accusa. Definito quanto fecero a Torino ì brigatisti «atti di delinquenza comune», il dottor Nunziata ha proseguito: «Il giudizio politico del Paese su questi deliranti combattenti armati precede e ha preceduto quello penale condannandoli all'isolamento». E ancora: «Questi personaggi vivono in luoghi e tempi sbagliati e obiettivamente la loro posizione in Italia, che non è e non lasceremo che diventi un Paese sudamericano, è una posizione che realizza l'obiettivo dei neofascisti: quello di abbattere lo Stato nato dalla Resistenza e fondato sulla Costituzione. Non per nulla chi plaude e trae beneficio dalle gesta di costoro e dai loro seguaci sono proprio i neofascisti». Infine le richieste: due anni e cinque mesi per Curcio, Franceschini, Ferrari, Ognibene, indicati come responsabili del lancio di una scarpa contro l'avvocato Gabri; tre mesi in meno per gli altri. Inoltre il p.m. ha chiesto l'eventuale sospensione dei benefici di legge per coloro che potevano usufruirne «visto il comportamento tenuto anche stamane in aula». I difensori di ufficio, Lammioni, Lenzi e Cristofori, hanno chiesto l'assoluzione, l'esame approfondito degli atti, comunque in via subordinata la concessione delle attenuanti. Il verdetto è stato emesso dopo un'ora e quaranta minuti di consiglio. Ma qui a Bologna la tensione non è passata: il 19 si terrà l'appello per le prime rapine delle Brigate rosse, gU «espropri proletari» nel Reggiano per i quali sono stati condannati Curcio, Franceschini, Belli e Troiano. Vincenzo Tessandori Bologna. Alfredo Buonavita e Renato Curcio (in secondo piano) mentre entrano in aula