Carter ha passato ai russi la carta dei "diritti civili" di Paolo Garimberti

Carter ha passato ai russi la carta dei "diritti civili"li gioco delle parti dopo la missione Vance Carter ha passato ai russi la carta dei "diritti civili" Ci sono due spiegazioni im- [ mediate e interdipendenti per il fallimento della missione di Cyrus Vance a Mosca. La prima è che le proposte americane per la riduzione degli armamenti strategici fossero tecnicamente inaccettabili per i sovietici, e viceversa. La seconda è che i sovietici abbiano boicottato il negoziato per manifestare il loro risentimento per gli interventi di Carter in favore dei «dissidenti». Ma c'è una terza spiegazione, più indiretta e complessa, che attiene alla struttura del potere sovietico e ai rapporti di forza tra gli oligarchi, che dal 1964 siedono al Cremlino. Quanto potere reale detiene Lconid Breznev nelle riunioni settimanali del Politbjuro, ogni giovedì, e più in generale nello svolgimento del processo decisionale? Questo non è un cruciverba cremlinologico (termine, ormai, dispregiativo, chissà perché), bensì un quesito fondamentale, in un momento tanto delicato del rapporto russo-americano e della distensione nel suo insieme, per sapere quali margini di manovra ha Breznev nel rispondere alla nuova politica di Jimmy Carter. L'immagine del potere di Breznev — proiettata ogni giorno dai giornali e spesso anche dai discorsi degli altri dirigenti — accredita l'idea di un nuovo culto della personalità. Però, a ben guardare, tale immagine riflette in modo distorto la reale bilancia delle forze al vertice del partito e dello Stato. C'è, insomma, una sovraesposizione di Breznev nella cornice della «direzione collegiale», che gli altri oligarchi addirittura sollecitano forse per scaricare sul capo tutte le responsabilità. In un crescendo trionfale di onori, tra maggio e dicembre dell'anno scorso, Breznev ha ricevuto la stella d'oro di maresciallo dell'Urss insieme con la rarissima menzione staliniana di «presidente del Consiglio di Difesa». Ed è stato poi proclamato, per il suo settantesimo compleanno, «vozhd (duce) del nostro Partito e di tutti i popoli della nostra Madrepatria», un titolo che, dalla Rivoluzione d'ottobre, avevano meritato Lenin e Stalin, ma non Kruscev. Però, proprio nello stesso periodo, Breznev ha fallito tre volte nel tentativo di accrescere il suo potere reale attraverso la promozione di suoi «clienti» a funzioni di alta responsabilità. Per la presidenza dei sindacati, vacante dopo le forzate dimissioni di Aleksandr Shelepin, Breznev aveva proposto due sue creature, Kapitonov e Cernenko, entrambi già segretari del Comitato centrale. Dopo diciotto mesi di discussioni, la scelta è invece caduta su Aleksej Shibaev, che dal 1959 dirigeva il partito a Saratov: un oscuro funzionario di provincia, chiaramente un uomo di compromesso, nel cui curriculum non c'è segno di legami con Breznev. Al posto di primo vicepresidente del consiglio dei ministri, lasciato libero da Poljanskij tre anni prima (i tempi decisionali sono significativamente molto lunghi), Breznev aveva fatto promuovere l'estate scorsa Nikolaj Tichonov, uno della cosiddetta « mafia di Dnepropetrovsk», il nucleo dei fedelissimi del segretario generale del pcus. Ma la successiva promozione di Tichonov al Politbjuro del partito è stata respinta, in novembre, al plenum del Comitato centrale. Un altro insuccesso per Breznev è stata la nomina del generale Ogarkov a capo di stato maggiore delle forze armate, al posto di Vikto Kulikov, un brezneviano. Formalmente, Kulikov è stato promosso comandante in capo del Patto di Varsavia. Ma si tratta di una carica più onorifica che operativa, certamente meno importante di quella di capo di stato maggiore e primo viceministro della Difesa, che Kulikov ha dovuto lasciare al non-brezneviano Ogarkov. Sono gli esempi più recenti (ve ne furono altri analoghi nel passato) che dimostrano corno la forza di Breznev sia di segno negativo, piuttosto che di segno positivo. Egli ha nel Politbjuro una maggioranza molto esigua, che gli consente quasi sempre di bloccare le candidature o le proposte altrui, ma non sempre gli permette di imporre le proprie candidature o decisioni. La direzione sovietica è assai più «collegiale» di quanto indicano le apparenze. Il potere di Breznev, che ha i suoi punti di forza nelle organizzazioni periferiche del partito e nell'apparato del Comitato centrale, si stempera a mano a mano che si sale nella piramide del partito e dello Stato. Le scelte fondamentali della politica sovietica sono, quasi sempre, il frutto di un compromesso, talvolta molto laborioso, e ciò rende assai poco elastica e pronta la capacità di risposta del Cremlino di fronte agli stimoli provenienti dall'esterno. Da quando è cominciato il delicato dialogo della distensione, Breznev è sempre stato attento a rendere i «compagni d'armi del Politbjuro» (l'espressione è di Andrej Kirilenko) corresponsabili di tutte le deci¬ sioni che avrebbero potuto, in futuro, creare contestazioni. Quando c'era il rischio di una spaccatura, egli ha dato prova di grande flessibilità, accettando il punto di vista altrui se non poteva imporre il proprio: nell'autunno del 1974, denunciò l'accordo segreto con Kissinger sui visti agli ebrei in cambio della clausola della «nazione più favorita» perché la pubblicità data dal senatore Jackson a tale accordo aveva irritato la grande maggioranza degli altri membri del Politbjuro. Questa tattica brezneviana ha bisogno, però, della complicità occidentale, cioè presuppone che, dall'altra parte del tavolo, vi siano interlocutori pragmatici, che sappiano tenere conto dei conflitti d'interesse esistenti nel Cremlino ed evitino di compiere mosse che possano mettere lo stesso Breznev in imbarazzo davanti agli altri dirigenti. Kissinger, ad esempio, non ha mai chiesto più di quanto Breznev potesse concedere senza irritare i suoi avversari interni. Questo era il segreto dell'intesa Paolo Garimberti (Continua a pagina 2 in ottava colonna)

Luoghi citati: Mosca, Urss