Con "Un ballo in maschera,, di Verdi di Lino Vetere

Con "Un ballo in maschera,, di Verdi Con "Un ballo in maschera,, di Verdi Inaugurata in tono minore la stagione lirica genovese (Dal nostro inviato speciale) Genova, 30 marzo. Dopo l'esperimento dello scorso anno, felicemente riuscito, della coraggiosa apertura di stagione con il Don Giovanni di Mozart, per l'inaugurazione della rassegna lirica di questa primavera i responsabili dell'Ente teatro comunale dell'Opera di Genova — che ha sempre vacante il posto di direttore artistico — avevano pensato di tornare sul sicuro con il verdiano Un ballo in maschera messo in scena ieri sera sotto la direzione di Franco Mannino. Quest'opera, il cui libretto Antonio Somma ricavò per Verdi dal testo di Scribe, ha tutti i requisiti per fare spettacolo, con la ricchezza musicale e di teatro che possiede e con il gioco di passioni violente che mette in mostra. Tutti i sentimenti umani sono fusi nella musica di Verdi e tutti il maestro li esprime con un crescendo esaltante in progressione drammatica. Non a torto Gabriele D'Annunzio lo considerava «il melodramma più melodrammatico del mondo». Puriroppo quest'anno la scelta dell'opera inaugurale della stagione non È stata molto felice. Un ballo in maschera è opera difficile, sia nella partitura, una delle più ralfinate di Verdi, sia nell'azione scenica, movimentata e dinamica, tanto che il compositore dimenticò sovente la forma chiusa per dare sfogo al dramma: alla passione, al dolore, all'odio. Né l'ironia di facili motteggi intacca la bellezza di queste pagine, sia quando Renato, il marito tradito in spirito, incalza con «Sento l'orme dei passi spietati», sia nella celebre frase dell'infelice governatore di Boston: «La rivedrò nell'estasi raggiante di pallor»\ Con questo intreccio di situazioni tragiche attraversato da riflessi di commedia, come nel finale del secondo atto, occorre tutto un gioco di sfumature, vocali e strumentali, che il valoroso maestre Franco Mannino non ha potuto ottenere, come certo intendeva, sia dall'orchestra, non ancora perfettamente a punto, sia da una compagnia di canto generosissima ma sovente impari all'impegno assunto. E proprio questa foga, questa generosità interpretativa ha portato sovente i cantanti a commettere peccati di intonazione. Il tenore Nicola Martinucci ha riscattato con un bel finale le incertezze dimostrate soprattutto nel grande duetto del secondo atto con Amelia, interpretata da losella Ligi, che possiede una bellissima voce soprattutto nel registro medio (una splendida Mimi sarebbe questa vincitrice del Viotti d'oro 1970) ma come soprano lirico spinto trova nel registro alto della protagonista dei limiti faticosamente raggiungibili, Tuttavia anche la Ligi si è difesa con bella sicurezza, come Anna My Bruni, alle prese con la parte di Oscar irta di difficoltà, e Carmen Gonzales, una Ulrica per nulla tenebrosa, più fata che strega. II baritono Silvano Carroli impersonava Renato. Una voce potente ma non sempre ben amministrata e controllata, con troppo aperte inflessioni di tipo e stile verista. A posto Sam e Tom, cioè Carlo Del Bosco e Carlo De Bortoli. Un po' statica la regia di Beppe de Tornasi e senza troppo rilievo le scene su tinta ocra di Antonio Mastromatiei. Obbligato, per evidenti ragioni di economia, ad un impianto unico di scena, l'antro di Ulrica è diventato un atrio di palazzo e l'«Orrido campo» un belvedere con vista su una montagna dirupata. Applausi e qualche zittio alla fine del primo atto, aperti dissensi e alcuni fischi a metà del secondo a scena aperta; applausi nel finale. Certamente nelle repliche tutto migliorerà. Lino Vetere

Luoghi citati: Boston, Genova