La prevenzione delle tromboflebiti di Alberto Maria Raso
La prevenzione delle tromboflebiti La prevenzione delle tromboflebiti Alberto Maria Raso Il Cattedra di Clinica Chirurgica Università degli Studi di Torino Accanto al sempre più sentito problema della prevenzione e riabilitazione del flebopaziente, l'argomento più dibattuto al Terzo Corso di flcbologia tenutosi a Modena sotto la presidenza del professor Conti è stato la trombosi venosa (soprattutto nelle sue forme profonde). Studi molto recenti hanno infatti permesso di dimostrare che la malattia flebotrombotica sembra colpire circa il 36 per cento di tutti gli operati, decorrendo spesso del tutto asintomatica e priva di complicazioni. Alla conclusione di una così alta percentuale si è giunti non tanto con il solo esame clinico quanto con metodiche moderne e raffinate quali l'uso del fibrinogeno marcato, la flebografia isotopica, l'apparecchio Doppler e la flebografia con i comuni mezzi di contrasto iodati. Fortunatamente il numero di pazienti con sintomatologia conclamata è molto meno rilevante ma non va dimenticato che talora la embolia polmonare può rappresentare la prima manifestazione di una flebotrombosi a livello popliteo o iliacofemorale passata misconosciuta. Accanto a queste forme, che devono essere sempre tenute presenti dai chirurghi onde attuare una profilassi posturale e medicamentosa precoce, esistono le tromboflebiti definite spontanee in cui non è riconoscibile una causa scatenante (circa il 40 per cento), quelle post-traumatiche, sempre più frequenti (20 per cento) seguite dalle forme ostetrico-ginecologiche (in diminuzione) e da tutte le altre, di minor incidenza, comprese quelle iatrogene da mezzi diagnostici o da farmaci (ansiolitici, pillola, ecc.). E' ormai assodato che nella tromboflebite, accanto alla lesione parietale si accomunano le alterazioni della crasi ematica e la stasi venosa; quest'ultima è l'elemento più importante, contro il quale agire in modo profilattico. La mancanza di tempestività diagnostica e terapeutica conducono solitamente alla sindrome postflebifica e cioè, alla «grossa gamba», ben trattabile e migliorabile con terapia medica (nel 92-95 per cento dei casi) ma difficilmente guaribile in senso assoluto. Sembra paradossale, ma la sindrome post-flebitica può essere considerata una malattia iatrogena poiché insorge quando la flebite è curata tardivamente o inadeguatamente. Tutti i relatori sono stati concordi nel ritenere le flebiti profonde una patologia da ricovero immediato onde attuare una diagnosi precocissima (mediante la flebografia) ed un'immediata terapia (sia essa medica o chirurgica). Se si può intervenire entro poche ore dall'esordio con una disobliterazione venosa, si otterrà una restitutio ad integrum completa dell'arto, soprattutto se l'obliterazione è a carico dell'asse iliacofemorale. Tale tipo di terapia aggressiva è imperativa quando esistono controindicazioni alla terapia anticoagulante, quando si siano manifestate embolie polmonari recidivanti o quando la trombosi venosa profonda evolva attraverso la phlegmasia verso la gangrena venosa. Poiché non sempre si può intervenire precocemente in senso chirurgico la sola terapia medica possiede valide alternative rappresentate dagli anticoagulanti (eparina e dicumarolici), dai fibrinolitici, dagli antinfiammatori (finilbutazonici) e da farmaci definiti antiaggreganti piastrinici (la cui funzione è soprattutto di impedire l'estensione del trombo). Di fronte quindi ad un paziente da lungo tempo degente a letto, soprattutto se immobile, anche per una banale influenza e che presenti edema di un arto, anche senza segni di flogosi conclamata, esistono semplici manovre di semeiotica clinica che possono far presumere la presenza di una trombosi venosa profonda. Il ritardo diagnostico e terapeutico portano inevitabilmente alle sequele dell'obliterazione venosa profonda che il paziente pagherà ad un prezzo molto più caro in futuro di quanto non sia un pronto ricovero, un'immediata e certa diagnosi ed un'oculata e tempestiva terapia.
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