I fotografi sovietici sulla linea del fuoco di Giuseppe Mayda

I fotografi sovietici sulla linea del fuoco Mostra fotografica al Centro culturale Fiat I fotografi sovietici sulla linea del fuoco Ricostruita in 50 straordinarie immagini l'invasione nazista nell'Unione Sovietica « Fratelli, sorelle e compagni dell'Unione Sovietica ». E' Stalin che parla alla radio, in quella calda domenica del giugno 1941, quando le armate del Terzo Reich hanno appena invaso le steppe russe scatenando un uragano di ferro e di fuoco sulle tre « città sante » di Mosca, Leningrado e Stalingrado. La voce di Stalin, lenta, con lo strascicante accento georgiano, le lunghe pause e quelle parole mai usate per rivolgersi al popolo (<f Fratelli, sorelle ») dicono alla folla che lo ascolta dagli altoparlanti agli angoli delle strade quale terribile flagello si sia abbattuto sul Paese. Una fotografia di Ivan Sciaghin fissa la scena: la piazza Gorki gremita, un giovane — in camicia a scacchi e ciuffo biondo sugli occhi — trattiene a stento le lacrime; dietro di lui c'è una donna magra, il viso avvolto in uno scialle nero, che fissa il vuoto con sguardo sperduto come se presagisse le tragiche sofferenze di altri milioni di donne sovietiche. Questa foto, così bella e drammatica nella sua estrema semplicità, fa parte della mostra « I fotografi sovietici di guerra: 1939-1945 » che, curata da Rinaldo Prieri, si inaugura oggi alle 18 al Centro Culturale Fiat di via Carlo Alberto 59 e che rimarrà aperta al pubblico, compresi i giorni festivi, fino all'8 aprile. Sono, complessivamente, cinquanta fotografie, tutte inedite, che rivelano un vigore e una tecnica eccezionali, sì da stare al confronto — talvolta superandolo — con i più noti fotografi di guerra americani (e qui forse varrà la pena di considerare che, quelli sovietici, fotografavano la propria patria invasa). Le immagini tracciano, l'intero arco del conflitto russo-tedesco: i profughi che fuggono nella neve dai villaggi incendiati e dalle città devastate, l'accanita resistenza di Kiev e di Charkov (e vi si coglie quasi l'eco, in quei volti scuri di soldati, delle disfatte sovietiche dell'estate); i morti abbandonati sul ciglio delle strade fangose; i torturati e gli uccisi; la celebrazione sulla Piazza Rossa dell'anniversario della rivoluzione d'ottobre (è il 7 novembre 1941, la neve cade fitta sui reparti che sfilano in parata mentre gli eserciti tedeschi sono a poche decine di chilometri dalle porte di Mosca). E poi la svolta: Stalingrado, la riconquista dell'Ucraina, il movimento partigiano, la flotta sovietica a Sebastopoli e a Leningrado; la gente che ritorna alle proprie case portando le sue povere cose, la zappa, l'icona, il fagotto degli abiti; la marcia attraverso la Polonia, gli orrori dei campi di sterminio (Auschwitz, con la mano di un deportato che sporge dal forno crematorio) e, infine, Berlino e la bandiera dell'Unione Sovietica sventolante dalla sommità del Keichstag in fiamme. Alpert, Diament. MarkovGrinbert, Lander, Lipskerov, Redkin, Sanko, Savin, Sciaghin, Selma, Strunnikov e Ustinov hanno fissato tutte queste tappe in nitide, essenziali fotografie che quasi nulla concedono alla retorica. Quei cinque versi di Neruda, tanto mediocri quanto celebri, che consacrarono la vittoria di Stalingrado (« Quelli che umiliarono a Parigi / le curve dell'Arco trionfale I e le acque della Senna hanno solcato / con il vile consenso dello schiavo I marciscono ai tuoi piedi, o Stalingrado ») non hanno eco, in queste fotografie che ci raccontano, più che di un paese guerriero e assetato di giusta vendetta, di una umanità dolente, fiera e mai rassegnata, è vero, ma sempre buona, comprensiva, pacifica. Basta vedere come Selma e Lipskerov descrivono la « loro » Stalingrado: tre sole immagini, la lotta metro per metro nelle officine « Ottobre », il deserto sconfinato delle macerie e delle case scheletrite e lo altissimo Paulus che si arrende. Perfino nella parata della vittoria, il 24 giugno 1945 con le bandiere naziste gettate a centinaia ai piedi del mausoleo di Lenin, non c'è trionfalismo: non a caso, accanto a questa mirabile foto di Alpert, c'è quella di una bella ragazza in barca sul lago e le mani che raccolgono fiori come simbolo di pace. Assieme alla rassegna dei fotografi di guerra, la mostra del Centro Culturale Fiat presenta cinquantadue foto di un multiforme artista sovietico, Alexander Rodcenko (morto nel 1956) che fu pittore, scultore, scenografo e docente di grafica e che al grande pubblico occidentale è noto soprattutto per le quattro famose fotografie di Majakowski del 1924: artista di particolare capacità intuitiva e creativa, Rodcenko appartenne — nell'Unione Sovietica — a quel movimento d'avanguardia artistica che fu contemporanea alla Bauhaus occidentale: le sue foto — come quella della madre che rivela estremo vigore e umanità — rappresentano per il pubblico un documento d'epoca di valore eccezionale. Giuseppe Mayda « Profughi dai villaggi incendiati », una foto del sovietico Max Albert