Si prevede una pace calda di Paolo Garimberti

Si prevede una pace calda TRENTA ESPERTI DISCUTONO I RAPPORTI TRA EST E OVEST Si prevede una pace calda La guerra fredda appartiene al passato, ma non ci s'illude sugli sviluppi della distensione - Prestiti occidentali per 44 miliardi di dollari hanno aiutato anche il riarmo del Patto di Varsavia - La sfida dell'eurocomunismo alla società sovietica La distensione è morta? L'Economist l'aveva già sepolta quattordici mesi fa, proponendo un epitaffio non troppo convincente perché non abbastanza motivato: «Qui giace l'esperimento chiamato distensione, un coraggioso ma innaturale interludio nel corso normale degli aSari mondiali: 19691975». Ora, la domanda è stata riproposta a quarantasei esperti da Survey, la rivista trimestrale di Leopold Labedz, che celebra il centesimo numero con una monografia a più, voci sul futuro dei rapporti Est-Ovest. Il responso, che emerge dall'approfondito consulto, è di prognosi riservata. La distensione non è morta, ma il suo stato di salute desta non poche apprensioni e le prospettive future sono precarie. Forse, allo stato attuale dei rapporti tra il mondo capitalista e quello che si vuole socialista, è più aderente la definizione di «pace calda», proposta dal politologo francese Pierre Hassner: una competizione indiretta tra i due massimi sistemi, che sta a metà tra il confronto diretto della guerra fredda e il negoziato essenzialmente bipolare della distensione. I fatti e le tendenze prevalenti dopo la Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione hanno comunque dimostrato che la distensione non è la dimensione definitiva ed irreversibile dei rapporti Est-Ovest. Il ritorno di certi fantasmi degli Anni Cinquanta (tensioni tra le due Coree e le due Germanie, minacce di crisi a Berlino, sviluppo di nuovi e tremendi sistemi di armamenti) si è accompagnato ad una reciproca delusione per l'andamento dei rapporti economici, alla mancanza di progressi e di entusiasmo nelle trattative sulla riduzione degli armamenti fSalt e Mbfr;, al rifiuto dell'Unione Sovietica di impegnarsi nel negoziato Nord-Sud e di assumersi altre responsabilità per uno sviluppo più ordinato e più giusto del mondo. D'altra parte, soprattutto dopo Helsinki, l'Unione Sovietica ha sempre ripetuto che la distensione non significa la fine della competizione ideologica, politica e mili¬ tare (intesa, magari, nel senso più restrittivo di corsa controllata agli armamenti) tra l'Est e l'Ovest. Come ricorda Léonard Shapiro, storico inglese del comunismo sovietico, già per Lenin la coesistenza pacifica andava intesa essenzialmente come uno stato dei rapporti con le potenze «imperialiste» caratterizzato dalla mancanza di un confronto militare diretto, che consentisse perciò lo sfruttamento da parte dell'Urss delle economie «imperialiste» per sviluppare la propria. Nel 1921, in un memorandum inviato a Cicerin, allora commissario agli Esteri, Lenin scriveva: «Il capitalismo ci farà crediti per il nostro obiettivo di sostenere il comunismo in altri Paesi (...). Ci fornirà i materiali e le tecnologie delle quali siamo carenti e ricostruirà la no- stra industria militare, che ci serve per i futuri attacchi vittoriosi contro i nostri fornitori. In altre parole (il capitalismo) sta lavorando sodo per preparare il proprio suicidio». Leonid Breznev aveva in mente quell'insegnamento leninista quando, nel 1971, dalla tribuna del XXIV congresso del pcus, propose un «programma di pace» in sei punti, piattaforma sovietica per la distensione? Certo è che — mentre l'Occidente concedeva ai Paesi dell'Est crediti per 44 miliardi di dollari — l'Urss portava da 141 a 168 le proprie divisioni ai confini con l'Europa occidentale, aumentava del 40 per cento la disponibilità di carri armati, raddoppiava l'artiglieria, creava 6 nuovi sistemi di armamenti nucleari, produceva un numero dì sottomarini quattro volte superiore a quello degli Stati Uniti. In cambio, l'Occidente non ha ottenuto neppure una liberalizzazione dei rapporti umani con i Paesi dell'Est, tanto meno un accenno di democratizzazione all'interno di quei regimi. La delusione dell'Occidente ha avuto, come primo effetto, una parziale chiusura della linea di credito politico ed economico aperta all'Oriente negli anni precedenti. E, grazie anche al «moralismo» della nuova amministrazione americana che fa della difesa dei diritti umani una delle sue bandiere, al negoziato permanente tipico della distensione si sta ora sostituendo un rapporto più complesso, di competizione (prima che di negoziato) tesa all'affermazione di una superiorità politico-ideologica attraverso la contrapposizione non solo di forze politiche e di potenzialità militari, ma anche di modelli morali. Molti sono i fattori che possono determinare l'esito di questa competizione e, dunque, il futuro dei rapporti tra Est e Ovest. Oltre alle tradizionali incognite dell'equilibrio strategico (ad esempio, la collocazione per ora incerta della Cina vedo¬ va di Mao o della Jugoslavia del dopo-Tito), i quarantasei esperti interrogati da Survey ritengono che oggi possa essere decisiva la capacità delle superpotenze di rispondere — sia in aree terze, sia all'interno delle loro stesse società — a sfide comuni e a crisi specifiche. Perciò, nel complesso giuoco tra Est e Ovest un ruolo determinante può essere svolto dall'«eurocomunismo» e dal «dissenso» nei Paesi dell'Europa orientale. Per i Paesi occidentali il costante progresso di alcuni partiti comunisti può essere un fattore destabilizzante. Perciò, l'interesse di tali Paesi e degli Stati Uniti è di inglobare definitivamente gli «eurocomunisti» nei loro sistemi democratici (mentre l'interesse dell'Urss è di frenare tale processo: ecco un tipico esempio di competizione indiretta) spingendo il più avanti possibile quelli che sembrano essere i due caratteri distintivi ed univoci dell'«eurocomunismo». Il primo di tali caratteri è un genuino sentimento che un socialismo democratico può essere costruito meglio in Occidente, sotto la protezione americana, che in Oriente, sotto la ferrea legge brezneviana della sovranità limitata. Il secondo carattere distintivo è rappresentato dalle crìtiche che i partiti «eurocomunisti» rivolgono alla società sovietica, la cui mancanza di libertà democratiche, politiche e individuali non può più essere spiegata come un «retaggio del passato». D'altra parte, non va dimenticato che, come osserva Arrigo Levi nel suo intervento, i comunisti occidentali sono stati costretti a cercare nuove formule, al di là di agonizzanti stereotipi ideologici, dalla vitalità stessa delle democrazie occidentali, sprigionata da una grande varietà di forze politiche e contrapposta ai numerosi fallimenti del comunismo leninista. E' una conferma, cioè, di quella che Mttovan Djilas definisce «la totale inferiorità» del socialismo burocratico rispetto al capitalismo democratico: «Grazie alle sue qualità umanistiche — osserva il "dissidente" jugoslavo — l'Occidente è oggi incomparabilmente più vicino dei Paesi dell'Est all'insegnamento socialista classico, o, se si vuole, marxista». Ma V «eurocomunismo» può essere un fattore destabilizzante anche per l'Unione Sovietica, tanto più perché coincide (favorendola in una certa misura) con un'epidemia di «dissenso» all'Est, che aggiunge un problema politico alle tensioni economiche esistenti all'interno della cosiddetta «comunità socialista». Andrej Amalrik, il «dissidente» sovietico emigrato involontariamente in Occidente, pensa che l'Urss potrebbe creare ad arte dei conflitti di politica estera per distrarre l'attenzione dai problemi interni, secondo una tattica già sperimentata dalla Russia zarista tra il 1905 e il 1917. Ci sembra, quella di Amalrik, una previsione troppo pessimistica, dettata probabilmente dalle amare esperienze personali e dalle suggestioni orwelliane sempre presenti nell'autore di Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?. Tuttavia, la maggioranza degli esperti interrogati da Survey concorda sul fatto che il futuro dei rapporti Est-Ovest e l'esito della competizione ideologica tra il «capitalismo» e il «socialismo» dipenderanno anche da come la nuova amministrazione americana saprà sfruttare le contraddizioni interne del mondo comunista. Anche Zbigniew Brzezinski, consigliere di politica estera di Carter, ritiene che «un mondo comunista policentrico è una componente di un mondo più pluralista» e che «il policentrismo nel comunismo è una precondizione affinchè i regimi comunisti evolvano gradualmente per diventare membri più cooperativi della comunità internazionale». Perciò, secondo Brzezinski (il cui saggio, sebbene scritto prima dell'investitura di Carter, indica assai bene i principi teorici che sorreggono la prassi politica della nuova amministrazione) tra le priorità della politica americana deve figurare il contenimento dell'espansionismo sovietico da realizzare anche attraverso un miglioramento dei rapporti tra l'America e i Paesi comunisti più indipendenti da Mosca: non soltanto la Cina, ma anche la Jugoslavia e la Romania. Brzezinski propone, dunque, una distensione «selettiva e competitiva», nella quale il dialogo bipolare con l'Unione Sovietica e i negoziati sili quali esso tradizionalmente si basava (come il Saltj sono soltanto un aspetto di un rapporto molto più complesso e articolato. Ma le prime reazioni sovietiche a questa visione della distensione ripropongono l'interrogativo iniziale: è ancora distensione? Paolo Garimberti