L'AGENDA DI F. & L. di Franco Lucentini

L'AGENDA DI F. & L. L'AGENDA DI F. & L. La tinca di fondo Quando De Gaulle, dopo aver liberato la Francia, rimise in piedi la vecchia Repubblica, rinunciando al colpo di Stato, alla dittatura, al potere, il suo battagliero Rassemblement ci restò assai male. « Il generale — disse Malraux — ci ha guidati fino al Rubicone per pescare alla lenza ». Offriamo la feroce battuta, vecchia di un quarto di secolo, a quegli extraparlamentari, autonomi, ribellisti, avventuristi, indiani ecc., che sono oggi impegnati a cercare slogan contro il pei (e che talvolta ne trovano di spiritosi). Non siamo coltivatori diretti di giovani. Non abbiamo preso parte al nauseante corteggiamento dei giovani cui tutta la classe politica e intellettuale, diciamo così, italiana, si è dedicata dal 1968 a oggi. Non abbiamo idee sui giovani, non speriamo nei giovani, non disperiamo dei giovani, non ci preoccupiamo affatto dei giovani. La parola stessa ha ormai connotati ripugnanti, maleodoranti, vagamente razzisti, gronda giulebbe, untuosità, corruzione. Non è più pronunciabile dalle persone civili. Se fossimo giovani, preferiremmo certo essere odiati e combattuti, piuttosto che compresi, studiati, spiegati, giustificati, seguiti, socioeconomizzati, imprigionati da questa ragnatela di appiccicoso interesse. Dev'essere, per un giovane, una sensazione orrenda, la più melliflua e implacabile delle tirannie. Che ogni tanto i giovani cerchino di scrollarsela di dosso in qualche modo, in qualunque modo, non ci meraviglia né c'indigna. Questa volta il pretesto è stato il numero chiuso nelle Università, l'inflazione delle lauree, l'assenza di prospettive di lavoro. Ma sono cause che non ci persuadono. Se il Califfo di Bagdad o la Fatina dai Capelli Turchini offrissero domattina ai cosiddetti disoccupati intellettuali degli impieghi sicuri e lautamente pagati, con magari l'aggiunta di un lindo appartamentino e di un'utilitaria, siamo sicuri che la grande maggioranza di essi direbbe di no. E' del tutto inverosimile che si tratti, a questo punto, di un problema sociale. Quegli esagitati dipinti di verde e di giallo non vogliono « il posto », vogliono passare il Rubicone. Solo che, attestato sulla riva, c'è il partito comunista che sta pescando alla lenza. * ★ « Calma ragazzi — dice paternamente ai sopravvenuti — non precipitate le cose. La corrente è forte e piena di mulinelli. C'è il rischio di annegare, o quantomeno di beccarsi una polmonite. Aspettate un momento. E del resto, guardate che belle tinche si tirano fuori da questo ridente corso d'acqua! ». E' un discorso saggio e rea listico, col quale ogni cittadino amante della pace può trovarsi d'accordo; col quale noi stessi ci troviamo pienamente d'accordo. Le botte, le spranghe, gli sputi, la devastazione di atenei e salumerie ci piacciono poco, e poco apprezziamo, come letterari, i lamenti apparsi sui giornali dell'ultrasinistra, dove la bagarre di Roma già viene descritta, con caratteristica gigantofilia, nei termini usati di solito per il kolossal del filone catastrofico, gremiti di comparse che stramazzano, singhiozzano, strappano tessere della Cgil, errano inebetite tra mucchi di compagni massacrati da mani fratricide. I comunisti hanno ragione, il senso della misura manca a questi emotivi aedi, cui forse qualche pedestre versione da Cesare, Senofonte o Tucidide farebbe intuire che cosa sia una vera battaglia, un vero massacro. Sì, i vecchi legionari comunisti hanno ragione, queste tribù che si avventano ciecamente contro tutto e tutti vomitando insulti e roteando bastoni, non sanno combattere, fanno solo disordine. E la loro puerile irresponsabilità, il loro folle comportamento possono costar caro a tutti noi. Noi chi? Noi che stiamo pescando in pantofole da questa parte del Rubicone. I comunisti avranno anche loro le pantofole, ma stanno sempre di là, sulla riva opposta, coi matti, i fanatici, i pellirosse. La questione di fondo, come essi amano dire, o la tinca di fondo, come preferiamo dire noi, è tutta qui. E' infatti accaduto al comunismo ciò che accade a certe suppellettili quali si vedono fotografate nelle riviste femminili sotto la rubrica « L'amico architetto » o « L'architetto ha pensato »: bidoni della spazzatura ridipinti di rosa e trasformati in comodini, bombole di gas liquido usate per reggere tavoli di legno grezzo, uccelliere della bisnonna messe a profitto per ospitare bottiglie di aperitivi. Da quando opera in Italia, il comunismo è servito a moltissime cose. E' stato un baluardo contro il nazifascismo, e poi contro lo strapotere democristiano. E' stato l'anima delle rivendicazioni salariali. E' stato il promotore di non si sa quante istanze, l'ideatore di innumeri piattaforme, il difensore di innumeri categorie, il denunciatore di innumeri soprusi, il mobilitatore di non si sa quante coscienze. Ma nel corso degli anni, tra uno sciopero di protesta e un festival dell'Unità, tra una larga convergenza democratica e una ferma presa di posizione, la sua funzione originaria sembra essere stata dimenticata dai pescatori. * ★ Il comunismo nacque come utopia. Scientifica finché si vuole, ma nondimeno utopia. Il suo fascino, la sua forza di attrazione, la sua presa incendiaria, stavano nel drastico e globale messianismo del suo primo grido. Esso evocava un mondo di uguali, la proprietà in comune, la fine di ogni sfruttamento, una nuova età dell'oro, l'arcadia, la felicità. Era diverso dalle precedenti utopie solo perché, per la prima volta, indicava i mezzi per raggiungere quei magici obbiettivi. Ma il suo richiamo non era né saggio né realistico, il suo linguaggio fu subito iperbolico: spettri, fratelli, catene spezzate, soli dell'avvenire, tutto un repertorio generosamente retorico che andava dritto al cuore del proletario e di Felice Cavallotti. Nessuno, allora, pensava alle tinche. Poi le cose cambiarono, l'architetto suggerì via via, tenendo conto delle nuove situazioni, ingegnosi e pratici aggiustamenti, indispensabili trasformazioni. Per sopravvivere, per durare, il comunismo si fece pescatore, non solo in Italia, ma in Russia, in Cina, a Cuba, dovunque. Bisognava sempre « aspettare un momento », c'era sempre qualche gravissimo contrattempo, qualche nuovo pericolo, qualche fresca, immediata minaccia che consigliava di rimandare il bel sogno a giorni migliori, a un domani ormai più metafìsico che materialistico. E nello stesso tempo non si poteva spegnere del tutto l'Ideale, non si potevano sopprimere i testi sacri, diffondere ciclostilati annunciami che non era vero niente, che i compagni dovevano mettersi il cuore in pace. La Chiesa, che pure non ha mai promesso il paradiso in terra, ne sa qualcosa, di queste acrobazie tra Verbo e realtà. Ma sono cose che durano finché durano. Presto o tardi, i letteralisti, i primitivisti, i puri, riscoprono pari pari l'antico messaggio utopistico ancora caldo sotto le ceneri del poco affascinante gioco politico, e corrono in massa al Rubicone. Non ha senso accusare il pei di averli « aizzati ». Un'utopia che non si fa prendere sul serio da nessuno resta un oggetto di studio per gli psichiatri (i quali la mettono nella categoria dei « deliri sistematici »), o al massimo un ge¬ nere filosofico-letterario di non travolgente interesse. Ed è inevitabile che a prenderla sul serio siano le teste calde, i sognatori, gl'impazienti, i disperati; è inevitabile che ad essi si accodino provocatori e profittatori, goliardi, saccheggiatori, buffoni e criminali. Tutto questo andava messo in conto prima, quando il sasso cominciò a rotolare. Né ha senso che il pei rimproveri alle nuove leve rivoluzionarie di aver letto poco Marx e di non aver studiato Lenin, di non aver imparato la lezione di Gramsci e di aver frainteso Mao. Non ha senso accusare d'infantilismo politico i neo-Comanches e i proletari armati, i fischiatori di sindacalisti e cattedratici «buoni», gli omosessuali, le femministe e quanti altri veri o sedicenti emarginati ricominciano a chiedere di brutto, subito, la tabula rasa, un mondo diverso, l'impossibile, la felicità. Tutto il punto delle utopie è di sbandierare proprio queste cose. La saggezza, il realismo di qualsiasi movimento che si sia posto dall'inizio come sistematore dell'universo, sta nel non perdere mai di vista la sua follia primigenia. Perché per una visione del mondo scettica e rassegnata, per una filosofia del minor male, per una politica della toppa e del rammendo, i Comanches non hanno motivo di rivolgersi al pei. Per dire che la felicità non è di questo mondo, che l'uomo nuovo non esiste, che spaccare tutto diverte un momento ma non risolve niente, che l'anelito verso una perfetta armonia sociale conduce al perfetto Stato di polizia, per queste e altre tinche ci siamo già noi, con le nostre malinconiche lenze, sulla riva più bassa del Rubicone. E sono anche difficili da pescare, le maledette bestie. Carlo Frutterò Franco Lucentini

Luoghi citati: Bagdad, Cina, Cuba, Francia, Italia, Roma, Russia