Don Giovanni dal mito all'ipocrisia borghese

Don Giovanni dal mito all'ipocrisia borghese Al Carignano per il Teatro Stabile Don Giovanni dal mito all'ipocrisia borghese Commedia singolare Don Giovanni, persino misteriosa. E commedia, non dramma: è vero, si conclude tragicamente, e solennemente, con una mortale stretta di mano tra il libertino e la statua di un gentiluomo che don Giovanni ha ucciso sei mesi prima e dal quale viene scaraventato, finalmente, all'injerno, ma quale dramma mescolò mai, come questo, arlecchinate (la cena di Sganaretlo con i piatti che gli passano sotto il naso), schiaffi e bastonate da fiera, buffonesche tirate, jarsette e parodie, dal creditore deriso ai contadini che, nella scena del naufragio, giocano alla commedia pastorale, e altri ingredienti che attestano la sua derivazione più dai canovacci italiani dell'arte che dal «Burlador» di Tirso de Molina o da qualche altra letterata tragicommedia. Nel teatro di Molière, Don Giovanni sta a sé: opera d'occasione, scritta in fretta nel 1665 su richiesta dei compagni dell'attore che avevano fiutato un soggetto di cassetta, è in prosa e ha una struttura particolare che, con i suoi continui e repentini cambiamenti di luogo in una Sicilia affatto improbabile, può richiamare il nome di Shakespeare a non volere, addirittura, scoprire in essa un precorrimento delle «stazioni» espressionistiche (e qualcuno non ha detto che è una via crucis alla rovescia, che anzi che in cielo porta all'inferno?). Eppure non si può negare che la commedia sia legata a Tartufo e al Misantropo, fra i quali la sua composizione si pone: continua infatti un discorso sull'ipocrisia dal quale nascono e fioriscono quei due capolavori. All'ipocrisia religiosa Molière aveva dato in Tartufo una battaglia il cui esito, mentre si rappresentava Don Giovanni, era ancora incerto; e contro l'ipocrisia mondana, a volte deliberatamente avvicinandola al puro rispetto delle regole e delle convenzioni sociali, tuonerà poi nel Misantropo. £ Molière non perdona l'ipocrita: passi che il suo eroe sia un seduttore, un cinico, un miscredente, ma basta che nell'ultimo atto si atteggi a tartufo e subito eccolo sprofondato sotterra. I nodi balzani e spinosi di questa commedia e del suo protagonista hanno intrigato lo spirito critico di Mario Missiroli che, sulle tracce di alcune illuminanti indicazioni di Giovanni Macchia (anche recenti: si veda 11 silenzio di Molière, ed. Mondadori) ha cercato di scioglierli considerando Don Giovanni «non un testo di teatro chiuso, ma il momento letterariamente più complesso dello sviluppo di un mito che si anitida da tre secoli nella coscienza della cultura europea». E lo spettacolo, che il regista ha allestito al Carignano per lo Stabile, ha il merito di mostrare e di svolgere con chiarezza questa impostazione. Tranne nel finale, è invece rimasta un poco nelle righe del programma l'idea, niente affatto peregrina, che don Giovanni sia, con la sua curiosità «cartesiana» (e che riguarda il sesso solo di sfuggita, ma questo Missiroli l'ha capito e sottolineato benissimo), il prototipo dell'«eroe» borghese destinato a rovinarsi e ad annullarsi nel culto di sé. Ma nell'ultima scena, uno stento giardinetto pubblico, prendendo il posto della grandiosa tomba che il commendatore si è fatto costruire in un bosco, registra un'evidente e ingloriosa caduta nel perbenismo e nell'ipocrisia della nostra società. Spettacolo di grosso impegno, come dicono subito l'ingegnosa ed elegante scenografia di Biguardi e i costumi di Elena Mannini davvero belli con i loro colori delicati e le loro fogge baroccheggianti, questo Don Giovanni dovrebbe tirar fuori 10 Stabile dalla morta gora dove l'hanno buttato l'indifferenza del pubblico e le contraddizioni e i contrasti della sua dirigenza, anche politica. I numeri li ha, anche l'onesta e rispettosa versione di Vittorio Sermonti porta 11 suo contributo. Ma ho l'impressione che gli ingiuriosi e indiscriminati attacchi subiti da Missiroli negli ultimi tempi abbiano lasciato qualche traccia nel suo lavoro inducendolo a frenare, a malincuore ma di proposito, i suoi estri ironici e satirici e il suo gusto per il grottesco e la deformazione. Ora, un Missiroli senza mìssirolismi, che non «butta tutto in farsa» come viene accusato, è senz'altro meno indisponente, ma a furia di controllarsi, rischia di raggelarsi. Donde un senso di freddezza nella rappresentazione che si nota anche nel don Giovanni di Giulio Brogi, il quale per altro questa glacialità sa volgere a favore del suo personaggio o scioglierla nel fuoco di una non meschina terribilità. Paolo Bonacelli è un Leporello gustoso, magari con qualche gag e lentezza di troppo, ma consapevole della sua grandezza di antagonista (o di protagonista?). Maria Teresa Martino, disperata sposa-bambina, Cesare Gelli, spagnolesco gentiluomo pomposo come deve, Laura Ambesi, Virginia lavorone e Teodoro Cassano, tre vivaci contadinelli, Gualtiero Rizzi, padre davvero «nobile», Gianfranco Barra, piacevole «Monsieur Dimanche», sono tra gli altri interpreti, tutti festeggiati con molto calore insieme al regista. E. finalmente, c'era persino molto pubblico. Alberto Blandi

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